Regression

Musiche altisonanti, porte che cigolano, gatti che miagolano in angoli bui: non manca proprio nulla nell’armamentario del cinema “da paura” che Alejandro Amenabar sfodera nell’ultimo film Regression. Che sia peccato di ingenuità, estro citazionistico o tentativo di avvertire lo spettatore circa la strada che sta prendendo la storia non è dato sapere; ma non è questo l’interrogativo principale che riguarda questo thriller psicologico con venature horror.

Ci si chiede innanzitutto come mai un regista di talento come lo spagnolo Amenabar, autore ai suoi esordi dell’ottimo Tesis (quello sì davvero da brividi), di un gioiello dell’angoscia come The Others e, in altro genere, di Mare dentro e dell’eccellente (e sottovalutato) Agora abbia potuto così clamorosamente sbagliare film. Lo spunto è intrigante (l’epidemia di panico riguardo presunti omicidi a sfondo satanico che dilagò effettivamente negli Stati Uniti fra gli anni Ottanta e i Novanta) e benché il “repertorio” messo in scena non sia certo nuovo era lecito attendersi molto di più da questa annunciata avventura nei misteri della mente umana e dell’isteria collettiva. Certo non ci sono solo difetti in Regression: l’ambientazione in una piovosa cittadina bigotta è riuscita (anche se già vista), alcuni interpreti funzionano (ad esempio Peter MacNeill nel ruolo del saggio capo della polizia locale), il finale amaro è risolto con intelligenza. Ma proprio questo finale (tutt’altro che inatteso, peraltro) ci fa riflettere su cosa avrebbe potuto diventare il film se Amenabar, mostrando più coraggio, avesse davvero indagato sui meccanismi della suggestione e sulla paura irrazionale che può coinvolgere i singoli e una comunità tutta, invece di seguire soprattutto la strada dell’”horroraccio” convenzionale.

Soprattutto come sceneggiatore Amenabar compie una serie di passi falsi, con trovate che anziché spiazzare lo spettatore finiscono per renderlo scettico e non di rado annoiato. Come regista riesce a confezionare un film che ha una sua tenuta, ma che finisce per risultare deludente e troppo “telefonato” (troppe le scene e le battute ampiamente prevedibili). Su questa operazione poco riuscita pesa anche la non felice scelta dei protagonisti. Ethan Hawke, con la sua bella faccia da ragazzino invecchiato, è un bravo attore che non risulta però del tutto credibile nel ruolo del coriaceo e supponente detective che finisce per farsi divorare dagli incubi su cui indaga. Ma la sua prestazione, comunque, è decorosa. Lo stesso non si può dire di Emma Watson, diventata famosa come Hermione Granger nei film di Harry Potter: in una parte difficile e ambigua non comunica mai emozione e dubbio. Per un film che ricorda per certi versi Schegge di paura ci sarebbe voluto un interprete all’altezza: là c’era un giovanissimo e già grandioso Edward Norton, qui una giovane diva nei cui occhi privi di inquietudine non brilla il mistero del film.

Trama

In una cittadina del Minnesota, nel 1990, la diciassettenne Angela Gray accusa il padre John di abusi sessuali. L’uomo, un meccanico con il vizio del bere e una vita difficile, si dichiara colpevole ma non ricorda nulla di quanto accaduto. Il detective Bruce Kenner ricorre allora all’aiuto di uno psicologo che sottopone John a ipnosi regressiva per risvegliare i suoi ricordi. Vengono alla luce immagini terribili, che coinvolgono anche il fratello di Angela e la loro nonna, racconti che evocano satanismo, sacrifici umani, croci rovesciate incise sulla carne. E mentre tutta l’America si allarma, il detective Kenner è sempre più coinvolto nel caso ed è preda di incubi sconvolgenti.



di Anna Parodi
Condividi