Redemption – Identità nascoste
Lo sceneggiatore Steven Knight è sicuramente uno dei nomi più interessanti che negli ultimi anni la Gran Bretagna abbia donato al cinema internazionale. Cinquantaquattrenne, ha lavorato, tra gli altri ,con il conterraneo Stephen Frears per il bel Piccoli affari sporchi (Dirty Pretty Things, 2002) e con David Cronenberg per il convincente La promessa dell’assassino (Eastern Promises, 2007), dimostrando particolare bravura nella descrizione di un mondo sotterraneo, sconosciuto ai più, fatto di personaggi che la vita ha messo alla prova attraverso vicende sempre borderline.
Preceduto in Italia dal suo secondo lungometraggio come regista, quel Locke (2013) basato su una narrazione in tempo reale (ma Nodo alla gola di Alfred Hitchcock era un’altra cosa) e presentato in prima mondiale alla Mostra di Venezia, Redemption – Identità nascoste è un tentativo parzialmente riuscito da parte di Knight di divenire narratore di una storia di varia umanità senza l’apporto del thriller. La mancanza dell’aspettativa di uno sviluppo diverso da quello che si può facilmente immaginare fino dall’inizio, preclude allo spettatore il piacere della sorpresa. In effetti, Knight ha scritto una vicenda di sconfortante prevedibilità, raccontata, oltretutto, con vasto uso di luoghi comuni usurati dal tempo senza mai riuscire realmente a coinvolgere emotivamente.
Il tormentone di tutto il film, usato in maniera massiva, è dato dalle immagini ambientate in Afghanistan in cui il protagonista, allora soldato delle squadre speciali, uccide per vendetta persone innocenti. Questo suo incubo ben presto diventa una pesante compagnia anche per lo spettatore che non avrebbe bisogno di tanti replay per capire i problemi psicologici del personaggio.
La storia, dunque, è poco probabile e mai giustificata dalla sceneggiatura che non riesce a dare coesione alle poche parti di cui è composta la vicenda. Non vi è, come abitudine dell’autore, una denuncia sociale ma, in questo caso, nemmeno azione fisica o intellettuale riducendo tutto ai dialoghi tra Jason Statham e Agata Buzek, l’ex soldato Joey e la suora Cristina. Il problema, in sostanza, sta nella debolezza dei personaggi e, soprattutto, dei loro interpreti.
Jason Statham per dodici anni ha fatto parte della squadra nazionale inglese di tuffi, ma pratica anche arti marziali come Taekwondo e kickboxing; secondo capitolo della sua vita pubblica è l’attività di modello e anche di indossatore; poi uno spot per casa di jeans lo fa notare a Guy Ritchie che lo fa lavorare in Lock & Stock – Pazzi scatenati, Snatch – Lo strappo e Revolver. Il terzo capitolo, quello cinematografico, fino a ora non lo ha visto raggiungere livelli eccelsi: è infatti sempre più importante la sua prestanza fisica che non vere capacità d’attore.
Nel caso di Redemption gli viene chiesto di reggere dialoghi lunghi privi di azione, con temi d’amore un po’ melensi che non lo vedono mai credibile. Intendiamoci, non è tutta colpa sua perché Knight non lo ha posto nelle condizioni di mettere in evidenza sue eventuali doti nascoste.
Figlia del politico polacco ed ex presidente del Parlamento europeo Jerzy Buzek, modella a Parigi, la trentasettenne Agata ha un corpo da indossatrice, un viso da indossatrice che mai riesce a fare credere lontanamente possa essere una suora. La missione di Soho vede in lei l’unica che distribuisce durante la notte cibo caldo ai poveri, questi ultimi visti come stereotipi che fanno pensare ai senza tetto come esseri dai visi mostruosi ma fondamentalmente buoni. Improbabile che vada da sola, ancora meno che sia sempre così elegante e con le vesti pulitissime. Ma il peggio arriva quando dialoga con Statham, come se fossero comodamente seduti in un ristorante di lusso e non nella ‘terribile’ Soho. Occhialini eleganti pronti per essere tolti e trasformarla in soft sex symbol, viso tragicamente inespressivo, pronuncia caricata dell’accento polacco anche nell’edizione inglese, la certezza che ben presto si ricordi di essere una donna.
Davanti ad un’opera prima si tende ad avere un occhio più benevolo per l’ovvia inesperienza del regista, ma in questo caso ci sono buone ragioni per considerare il debutto si Steven Knight quantomeno agevolato da alcuni suoi illustri collaboratori.
Le bellissime immagini sono di Chris Menges, esperto direttore di fotografia che aveva conosciuto durante le riprese di Piccoli affari sporchi. Menges ha creato atmosfere molto belle che racchiudono, purtroppo, un nulla assoluto costituito da emigrazione cinese con relativa delinquenza, suore polacche, violenza assoluta dettata da raptus incontrollabili: queste ultime sono le uniche scene in cui Jason Statham si trova a proprio agio essendo basate sulla sua fisicità.
Il napoletano Valerio Bonelli, da anni a ottimi livelli internazionali con film quali Il gladiatore (2000) e Hannibal Lecter – Le origini del male (2007), cerca, invano, di rendere scorrevole una storia in cui cento minuti sembrano eterni. Impossibile combattere contro il regista e unico sceneggiatore che decide anche contro i suoi interessi di autore.
Il pisano Dario Marianelli, premio Oscar per Espiazione (2007), e altre due volte candidato compreso quest’anno con Anna Karenina (2012), dona al film un’ottima colonna sonora che rende accettabili anche alcune scene meno riuscite tipo B-movie degli anni Settanta con giustizieri della notte alla Charles Bronson.
Per fortuna che con Locke il regista ha saputo maturare, tornando al thriller. Quindi, possiamo ritenere Redemption un passaggio dietro la macchina da presa poco riuscito e nulla più. I numeri per divenire un buon cineasta Knight li ha tutti anche se qui ce l’ha messa tutta per tenerli bene nascosti.
di Redazione