Recensioni dalla Mostra di Venezia 2022
Su Cinecriticaweb le recensioni dalla 79ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, con particolare attenzione ai film della SIC.
Love Life
Venezia 79 – Concorso
di Kōji Fukada
Durata: 123′. Anno: 2022. Produzione: Francia, Giappone.
Nella claustrofobica abitazione di Taeko e del suo giovane sposo Jiro, tra la piccola zona giorno e il bagno adiacente, si apre, un pomeriggio, una voragine incolmabile, come il vuoto lasciato da un figlio caduto. Il film di Kōji Fukada è la storia di un ritorno a casa, al termine di un viaggio metaforico e geografico che colma le distanze ed emancipa Taeko dal passato, permettendole di scegliere il proprio futuro. Un racconto del rimatrimonio che passa dalla più spaventosa delle tragedie, attraversata da Fukada e dai suoi personaggi senza far alcun rumore (il terzo vetrice del triangolo, Park, è addirittura muto).
Come nella tragedia greca, infatti, impera un gran disordine in cielo e in terra, e nel cuore di Taeko, ma le convenzioni sociali giapponesi impongono di non lasciarlo trapelare. Occorre un outsider, il mezzo coreano Park, che veste di giallo al funerale e usa il linguaggio teatrale dei gesti al posto di quello formale della parola, per sovvertire le regole e liberare la protagonista. A lui la donna che aiuta gli altri chiede, infine, aiuto per se stessa.
Un film che appare spento, ma ribolle nelle profondità vulcaniche; che appare rigido, ma basta il movimento di un pezzo, come nel gioco dell’Othello, a trasformare radicalmente quelli vicini; che appare lontano, eppure conquista, con la verità delle piccole scene quotidiane e un’inattesa sensibilità femminile. «Qualunque sia la distanza tra di noi – canta Akiko Yano in Love Life – niente può impedirmi di amarti». [Marianna Cappi]
Vera
Orizzonti
di Tizza Covi e Rainer Frimmel
Durata: 115′. Anno: 2022. Produzione: Austria.
Vera è un film calibrato sul personaggio di Vera Gemma, figlia del noto attore Giuliano. “Vera” nel senso del nome proprio e “vera” come autentica, in un modo o nell’altro la storia colpisce, stupendo il pubblico per la corrosiva autenticità dell’onesta finzione.
Giocato perfettamente anche in scrittura tra finzione e realtà, secco e neutrale, il film sa essere molto ironico, “vero” e in grado non solo di far sorridere il pubblico, in diversi momenti, ma anche di commuovere, in altri. Sarà la delicatezza dei due registi. O la loro umiltà e capacità di ascolto verso i personaggi che raccontano. Sarà anche la loro indole inclusiva che li porta a collaborare con persone di strada, non veri attori, e spesso a documentare i margini della vita, portando anche lì luce e creatività con il successo sociale.
Tutte queste cose assieme sfornano un prodotto che sa di essenza della vita, fatta poi alla fine di piccole cose, segnali di dialogo, impegno nell’ascolto, come se i registi fossero affermati psicologi. Tale è la loro capacità, anche politica, di penetrare nelle anime.
Dopo il meraviglioso Mister Universo, in cui compariva il ventenne Tairo, di mestiere domatore di leoni in un piccolo circo nella periferia di Roma, che non crede al malocchio, e forse solo casualmente era fidanzato di Vera, ecco questo nuovo ibrido, ironico documentario.
Con un nome così impegnativo le persone d’acchito si aspettano di sicuro molto da Vera. Sempre elegante, nutrita di paillettes, tacco dodici e pellicciotti sgargianti, assillata dal corpo, un po’ ferma agli anni ’90 dove il padre era ancora una star. Vera, con una bellezza tendente all’artificiale, che apparentemente collide e stride col suo nome, andando avanti con la pellicola, cioè più a fondo, sia nel film che forse anche nella vita, emerge come una “gemma”: offre attenzione al prossimo, pura e a volte quasi ingenua. Insomma, il film insegna anche a non giudicare. O a farlo quando il quadro è completo, almeno.
Con un’infanzia luccicante, come le paillettes che indossa, Vera è entrata in contatto con il miglior cinema italiano. Amici del padre erano Sergio Leone, Pasolini, ma l’essere “figlia di” cosa comporta? Di questo “peso” Vera parla anche con Asia Argento, altra figlia di un padre famoso, come nel cimitero che visitano assieme, dove al figlio di Goethe accade di non avere nemmeno un nome sulla tomba. «E finiremo così?», si chiedono le due amiche, ironiche. [Gaia Serena Simionati]
All The Beauty And The Bloodshed
Venezia 79 – Concorso
di Laura Poitras
Durata: 117′. Anno: 2022. Produzione: Stati Uniti.
Appassionante storia della fotografa Nan Goldin, è un film potente, catartico, socialmente utile. Dimostra che l’arte, quando si unisce al cinema, ha un’intelligenza superiore ad ogni sopruso, ad ogni miliardario, ad ogni male.
«Droll thing life is – that mysterious arrangement of merciless logic for a futile purpose». Questa commovente citazione sulla vita, fatta di rimpianti inestinguibili e del conoscersi troppo tardi, è tratta da Heart of Darkness di Joseph Conrad. Viene trovata, scritta a mano in una lettera, nella tasca di Barbara, la sorella di Goldin, morta suicida sui binari, schiacciata da un treno in corsa.
Eroina. AIDS. I ruggenti anni ’80 e le loro contraddizioni. Oltre a quelle della società, quelle di Goldin sono il trampolino di lancio di un’attivista precorritrice di tematiche oggi tanto discusse, forse anche grazie a tali interventi. Un’infanzia difficile, poi, abbandonata la famiglia disfunzionale, meta di violenze e soprusi, Goldin viene data in affido. Scappa da scuola, rimane muta per sei mesi, traumatizzata da vari eventi drammatici. Non parla più.
È lì che, a causa della sua profonda timidezza, arroccata in fobia sociale, Goldin si chiude in sé stessa. Solo poi scoprirà che la fotografia poteva fornirle un linguaggio, territorio di sofferenze alleviate. La foto diviene allora la sua voce. Una voce in grado di passare attraverso le paure. Con quel modo di esprimersi, fa centinaia di scatti. In sostanza, inizia a parlare.
Goldin cristallizza le sue esperienze amorose all’interno della “famiglia allargata” in cui ha vissuto la sottocultura gay e l’eroina, trasformando “l’istantanea familiare intima in un genere artistico” e in essenza corale, intima.
Imperdibile film per chi ama l’arte, gli altri e vuole crescere in empatia. Racconto epico ed emozionante, attraverso diapositive, dialoghi intimi, rari filmati della battaglia di Goldin per ottenere il riconoscimento della responsabilità della famiglia Sackler per le morti di overdose da ossicodone, prescritto dai medici senza avvertire i pazienti della dipendenza da esso generata. Con i più potenti analgesici esistenti in commercio, da un lato si toglie il dolore, dall’altro si elimina anche l’essere umano.
Alla fine Goldin vince. Molti musei del mondo, di cui la famiglia Sackler era mecenate, scorporano il nome e le sale dedicate. È la vittoria dell’arte contro la bruttezza farmaceutica omicida. [Gaia Serena Simionati]
Queens
Settimana Internazionale della Critica
di Yasmine Benkiran
Durata: 83′, Anno: 2022. Produzione: Francia, Marocco.
Il richiamo a Thelma & Louise è inevitabile e immediato, pur non potendo eguagliarne i livelli di spettacolarità, ma rispetto al pluripremiato road movie di Ridley Scott questo primo lungometraggio di Yasmine Benkiran, presentato nel programma della Settimana della Critica, non sfigura sul piano estetico e narrativo (grazie alla qualità della fotografia, al senso del ritmo, a una sceneggiatura mai prevedibile, firmata dalla stessa regista) e risulta persino più credibile nella definizione dello scenario – il Marocco contemporaneo –, in virtù di un’evidente caratura sociale e di una maggiore complessità psicologica dei personaggi. E la catena dell’Atlante, con le sue aspre suggestioni naturalistiche, non è meno attraente (anzi) dei paesaggi dell’Arkansas e del New Mexico.
Qui le donne in fuga dalla polizia, per sottrarsi a una giustizia penale durissima ma ancor più alla difficile condizione femminile, sono tre: la minuta e taciturna Asma (Nisrine Benchara), insofferente al ménage coniugale con un marito ottuso, l’astuta e procace Zineb (Nisrin Erradi), già detenuta per spaccio, e sua figlia, la piccola Inès (Rayhan Guaran), che nel corso della storia assumerà un ruolo sempre più decisivo. A guidare l’inseguimento – altra trovata efficace – è a sua volta una donna, Batoul (Jalila Talemsi), ispettrice al primo incarico, elegante e colta, testimonial di una condizione femminile caratterizzata non solo da “casalinghe disperate”, ma anche dall’emergere di donne in carriera, almeno nelle città. Al suo fianco un collega esperto ma disincantato, Habil (Hamid Nider), che la consuetudine con un sistema giudiziario retrivo ha reso più tollerante. L’alchimia che si crea in questa strana coppia, e tra le donne in fuga, è uno dei risvolti più poetici e attraenti del film.
«Queste donne hanno stile…», commenta a un certo punto un incredulo Habil. Si riferisce alla sua collega, ma non c’è considerazione più felice per definire l’arte di Benkiran e l’intero panorama delle registe del mondo arabo. [Paolo Speranza]
Other People’s Children
Venezia 79 – Concorso
di Rebecca Zlotowski
Durata: 104’. Anno: 2022. Produzione: Francia.
Rachel (Virginie Efira) è una donna appassionata e solare: ha un legame speciale con la propria famiglia, ama insegnare e, ora, ha anche un nuovo amore, Ali (Roschdy Zem), che le mette le ali ai piedi. Ma che, allo stesso tempo, la inchioda ad una realtà fino a quel momento ignorata. Perché Ali ha una figlia piccola, Leila, a cui Rachel si affeziona molto e che risveglia in lei un sentimento materno, con conseguente ansia da “data di scadenza”. Come le ricorda il proprio ginecologo (uno spassosissimo cameo del grande documentarista Frederick Wiseman), ora per lei i mesi sono anni e “i figli degli altri” non sempre bastano. Anzi, spesso, la fatica di entrare nel loro cuore non è proporzionale al rischio di perderli, di essere solo una parentesi, per giunta non sigillata da un legame di sangue.
I figli degli altri, diretto da Rebecca Zlotowski (con qualche suggestione autobiografica) ha il merito di disegnare un ritratto femminile misurato senza cedere a facili ricatti o, peggio, a isterismi da maternità negata, grazie ad una protagonista che sa disinnescare la tragedia trasformandola comunque in energia, dolente ma, a suo modo, fruttuosa. Pur non schivando qualche deriva didascalica, conseguenza anche di un approccio registico un po’ troppo “al servizio di”, il punto di vista resta interessante: in fondo, le compagne dei padri o i compagni delle madri condividono con la figura degli amanti quella sensazione di accontentarsi degli avanzi, dei ritagli di tempo, per di più soggetti alla volubilità e ai capricci di un bambino che, in pochi secondi, può reclamare la loro presenza come respingerla con crudeltà disarmante. Rachel si ritrova, così, travolta dai figli degli altri (come quello nascituro della sorella), anche se il film riesce a non cadere nella trappola della questione di come una donna possa sentirsi completa senza un figlio, con una prospettiva che, anzi, ammicca alla speranza, alle soddisfazioni professionali e, forse, a una nuova storia d’amore benedetta dalla pioggia. Splendida Virginie Efira che, con la sua morbidezza e poche accennate rughe intorno agli occhi, sintetizza il percorso di una donna libera che non smette, però, di interrogarsi. [Marco Contino]
Saint Omer
Venezia 79 – Concorso
di Alice Diop
Durata: 123′. Anno: 2022. Produzione: Francia.
Due donne, due maternità, il mito oscuro di Medea che uccide i figli per dispetto, rabbia, alienazione. Un’aula di tribunale dove si consumano due drammi. Uno si è già compiuto, l’altro, forse, verrà risparmiato. Questa la trama di Saint Omer, esordio nel cinema di finzione di Alice Diop, meticoloso, magmatico, carsico, estenuante nella sua lentezza, nell’affastellarsi di frustrazioni. Eppure la grazia emerge.
La protagonista, un fantasma per la società che non l’ha mai accettata, trova come unico mezzo per non accettare di essere sparita per tutti quello di privarsi della sua stessa luce, uccidere la figlia, frutto di una relazione in cui non si sente amata. Non c’è azione peggiore e più contro natura, eppure la regista, usando una tecnica di recitazione intimistica, porta lo spettatore a provare se non solidarietà, sicuramente pietà per una ragazza che ha perso ancora prima di iniziare a giocare.
Il movimento di specchi tra le vite delle due protagoniste – la mamma infanticida e la scrittrice che vorrebbe riscrivere il mito di Medea – è reso da un montaggio fluente, quasi naturale. E si esce pieni di dubbi, spesso è la chiave di un film riuscito. [Sara D’Ascenzo]
No Bears
Venezia 79 – Concorso
di Jafar Panahi
Durata: 107′. Anno: 2022. Produzione: Iran.
Premio speciale della giuria alla Mostra di Venezia e designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, Gli orsi non esistono di Jafar Panahi, al di là del suo immenso valore politico, è un lavoro di raffinata costruzione.
Con il metodo dell’autofiction, l’autore di film come Il cerchio, Taxi Teheran e Tre volti realizza un percorso metacinematografico magistrale: un regista – Panahi stesso – si stabilisce in un villaggio rurale al confine con la Turchia per dirigere, a distanza e clandestinamente, un film d’amore su una coppia in fuga. Ben presto viene coinvolto in una diatriba che accalora la piccola comunità ancorata in pratiche ancestrali e superstizioni, in particolare la tradizione di promettere in matrimonio una bimba appena nata.
L’affermazione che compone il titolo del film – “gli orsi non esistono”, appunto – è una presa di posizione programmatica, l’intelligenza illuminista di fronte all’interdetto religioso, alla censura politica, alla paura irrazionale, persino al carcere che Panahi sta purtroppo scontando, nonostante la grande mobilitazione internazionale in suo favore. Tra verità e finzione, tra modernità e arretratezza, Panahi allestisce una tragedia scespiriana –Romeo e Giulietta ovviamente – ma appena sussurrata, in cui il regista non è più il deus ex machina ma uno spettatore impotente. Del tutto impotente. Se non fosse per la potenza e la libertà delle immagini. [Cristiana Paternò]
The Kiev Trial
Venezia 79 – Fuori concorso – Non Fiction
di Sergei Loznitsa
Durata: 106′. Anno: 2022. Produzione: Ucraina, Paesi Bassi.
Gennaio 1946: Kiev è coperta di neve e piena di macerie della guerra conclusa da pochi mesi. Poche persone si aggirano per le strade, mentre alcune entrano nel portone di un palazzo dove si terrà il processo a quindici criminali nazisti, uno dei primi nella storia, avvenuto negli stessi giorni del processo di Norimberga (iniziato il 20 novembre 1945). Sono le immagini che aprono The Kiev Trial di Sergei Loznitsa, e sono spiazzanti perché ci portano ad un inevitabile confronto con la città bombardata in questi mesi dall’esercito russo.
The Kiev Trial si può considerare il “seguito” del suo precedente lavoro di montaggio Babi Yar. Context che ricostruiva con materiale d’archivio il massacro del settembre 1941, nel quale vennero assassinati in tre giorni dai nazisti 33 mila ebrei di Kiev, di cui migliaia erano bambini. Lì c’erano le vittime, qui ci sono i carnefici, o almeno quelli che sono caduti nella mani dei russi. Il materiale d’archivio, filmati girati da operatori russi, e depositato al Babi Yar Holocaust Memorial, dura circa tre ore e riprende le fasi più importanti del processo.
Loznitsa ne monta un terzo, tagliando e scegliendo, costruendo così inevitabilmente un punto di vista. È l’ambiguità del lavorare con materiali storici d’archivio, con l’essere cioè documenti della realtà e al tempo stesso ricostruzione della stessa, e al contempo offrirne una nuova ricostruzione. L’operazione di Loznitsa è in questo caso forse meno invasiva, perché taglia probabilmente dal materiale ripetizioni o tempi morti, ma scegliendo inevitabilmente parti delle testimonianze ritenute dal regista le più adeguate.
The Kiev Trial mostra un processo che il regime sovietico voleva fosse ripreso momento per momento, in un’aula stracolma di cittadini ucraini: si desiderava punire, ma anche offrire a quanti avevano patito i soprusi, le torture, le uccisioni ingiustificate, una sorta di motivata compensazione o forse solo una risarcimento mediatico e propagandistico. Gli imputati non cercano di giustificarsi; si dichiarano subito colpevoli e raccontano quali delitti hanno commesso: uccisione di migliaia di donne e bambini, saccheggi e incendi di villaggi, requisizioni forzate, deportazione di civili in Germania per lavorare come schiavi nelle fabbriche del Terzo Reich. Non sembrano quasi consapevoli delle mostruosità che raccontano, quasi fosse il banale lavoro della guerra. Ad un imputato viene chiesto perché avesse ucciso anche i bambini, risponde: «Correvano per il villaggio», insomma, davano fastidio. La sensazione è che i criminali pensassero in qualche modo di non subire condanne capitali, il loro sguardo sembra impenetrabile, le loro parole senza un ombra di discolpa, ma il processo è già scritto fin dall’inizio.
Nell’agghiacciante finale con l’impiccagione dei nazisti in piazza Kalinin a Kiev (ora chiamata Maidan), colma di più di duecentomila persone che assistono all’esecuzione, quasi la Place de la Concorde della Rivoluzione francese dove si ghigliottinava nel tripudio popolare, la cinepresa non ha alcun pudore, né risparmio etico, perché all’occhio delle vittime si vuol mostrare il sangue degli assassini. Giustizia è compiuta. [Giuseppe Ghigi]
Bardo, False Chronicle of a Handful of Truths
Venezia 79 – Concorso
di Alejandro G. Iñárritu
Durata: 174’. Anno: 2022. Produzione: Messico
È qualcosa di più di un cinema “bigger than life”. Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades è un film che potrebbe rappresentare la summa definitiva, finale (e i tantissimi detrattori di Iñárritu ci metterebbero la firma) di una carriera, di una filmografia. Un film così pieno, eccessivo, barocco, ridondante ma così originale (8½ di Fellini è uno specchietto per le allodole), personale, avventuroso e vivo che si fa fatica a togliergli gli occhi di dosso (il suo direttore della fotografia, Darius Khondji, santo subito).
La maniera in cui il regista messicano, spatriato negli altri Stati Uniti ma d’America, racconta il suo paese o, meglio, il ricordo che ha della sua patria, è qualcosa che fa pensare all’opera, anch’esso un film-mondo, di un altro migrante di prima classe come Alfonso Cuarón con Roma (condividono lo stesso scenografo), sempre per Netflix, la piattaforma “famigerata” a Venezia che però non c’entra con il suo “tocco” avendo acquistato questi film successivamente.
Ma il viaggio del protagonista, interpretato da uno straordinario alter ego del regista, Daniel Giménez Cacho, attore spagnolo naturalizzato messicano, come un’Odissea della mente, sorvola (a volte proprio così, plasticamente) il Messico terra di conquista da sempre (ci sono, filologicamente pure Hernán Cortés e Amazon che si vuole comprare pezzi di territorio). “Bardo” come limbo buddista in cui siamo e non siamo, come poeta e cantore di ciò che siamo veramente. Perfetto contraltare a quell’altro capolavoro messicano che è Nuestro tiempo di Carlos Reygadas. [Pedro Armocida]
Un Couple
Venezia 79 – Concorso
di Frederick Wiseman
Durata: 64′. Anno: 2022. Produzione: Francia, Stati Uniti.
Una coppia, si chiama il film, eppure in scena c’è sempre solo lei: dunque chi è il secondo elemento del quadro? Le parole della donna si rivolgono al marito Lev Tolstoj, ma lo sguardo in macchina costante sembra chiamarci in causa ad ogni accusa, ad ogni dichiarazione di devozione assoluta. Ma che colpa abbiamo noi della gelosia tremenda di Sof’ja verso il passato libertino dello scrittore, o della maniera incosciente che Tolstoj ha di comportarsi nei confronti dei suoi doveri di padre?
Forse, queste confessioni affidate a passeggiate nella natura tra i boschi e i ruscelli sono in realtà dei passaggi di consegna, Sof’ja ci chiede di custodire la storia del suo amore e del suo dolore, alla stregua di Tolstoj che, nella prima notte di nozze, consegna alla consorte i suoi diari affinché legga delle sue numerose avventure con le donne, come una sorta di manuale con le regole d’ingaggio. E se c’è qualcuno che mette a nudo ogni volta le regole d’ingaggio tra il cinema e gli spettatori è proprio Frederick Wiseman. In questo exploit “non documentaristico” (?) sembra applicare l’abituale formula di montaggio a quadri via via più ristretti, perfezionata nei suoi maestosi ritratti di istituzioni e strutture di società, a questo lungo monologo che passa dalla luce del giorno, che filtra dagli alberi, al lume di candela di una scrivania.
È vero che l’infallibilità geometrica dello sguardo vertiginoso del cineasta stavolta è un po’ traballante, mostrando il fianco a qualche fragilità formale, ma rimane intatta la forza primigenia che guida questo cinema da sempre, la chiamata a dichiarare la posizione del proprio spazio, ad assumere una posizione all’interno dello schema disegnato dal film. [Sergio Sozzo]
Have You Seen Tthis Woman?
Settimana Internazionale della Critica
di Dušan Zorić e Matija Gluščević
Durata: 78′. Anno: 2022. Produzione: Serbia, Croazia.
C’è un giornalista televisivo in diretta dall’appartamento di una donna. Ci racconta che Draginja è scomparsa nel nulla cinque anni fa senza lasciare traccia. Nessun segno di violenza né una spiegazione. Inizia così Have you seen this woman? di Dušan Zorić e Matija Gluščević, il film serbo presentato alla Settimana della Critica.
Da quel momento si dispiegano tre possibilità, tre ipotesi per la donna, una serba di mezza età, in carne, che di fatto nella vita è diventata invisibile. Draginja che trova un cadavere con le sue stesse fattezze, Draginja che assolda un finto marito per presentarlo alle amiche, Draginja che perde la memoria e la ricerca in giro per la notte. Tre versioni di lei nell’arco di 78 minuti, ognuna in un registro leggermente diverso ma coerente, ognuna segnata da una sequenza che la marca e ne rivela il senso intimo (la ripresa del rave col ballo della donna nel primo segmento).
Zorić e Gluščević spaccano il realismo del cinema balcanico, anche quello più simbolico (basti pensare a The Happiest Man in the World di Teona Strugar Mitevska, nella sezione Orizzonti, che per interposta metafora evoca l’assedio di Sarajevo). Qui si costruisce una possibilità alternativa che respinge la realtà e adotta un registro onirico e angoscioso, dai cromatismi accesi e fluo, denso di derive figurative.
È una tragedia grottesca e un dramma della solitudine, disegnato in una tripartizione narrativa alla Raúl Ruiz. Il suo atto politico è costruire l’affresco femminile per frammenti, per binari narrativi, per strade che possono essere percorse o lasciate; il coraggio estetico è quello di agire sulla forma del racconto, che funziona sia al primo grado che al secondo, ovvero come traccia metacinematografica ma anche come “semplice” storia di Draginja. Una donna di oggi che vuole cambiare pelle, che vuole “farsi vedere” e viene ricompensata almeno dalla centralità narrativa, dal potere dell’immaginazione che la ripesca dall’oblio e le offre traiettorie possibili. [Emanuele Di Nicola]
Argentina, 1985
Venezia 79 – Concorso
di Santiago Mitre
Durata: 140′. Anno: 2022. Produzione: Argentina, Stati Uniti.
Buenos Aires, metà anni ’80: in assenza clamorosa di un giudizio da parte del tribunale militare nei confronti dei responsabili della dittatura, lo Stato argentino, tornato democratico con Alfonsín nel 1983, procede a citare in giudizio il presidente Jorge Rafael Videla, ufficiale a capo della dittatura tra il 1976 e il 1983, e altri otto vertici di Esercito, Marina e Aviazione.
Il procuratore Julio Strassera (Ricardo Darín) accetta il delicato incarico, ritrovandosi per la prima volta al lavoro con un team legale dall’età molto giovane, capitanato dal suo vice Luis Moreno Ocampo (Peter Lanzani). Hanno pochissimo tempo per raccogliere una miriade di prove e testimonianze, che porterà al verdetto più clamoroso della storia sudamericana.
Soggetto che di per sé coinvolge e mobilita, trattamento molto pop e accattivante. La sceneggiatura di ferro di Santiago Mitre e Mariano Llinás è l’architrave che sostiene egregiamente Argentina, 1985, diretto dallo stesso Mitre. Elemento che, insieme a un casting curato al millimetro, fa in modo che in 140 minuti non si rilevi alcun calo di tensione. L’approccio empatico, la sottrazione del dramma tramite il sollievo del riso sono dichiarati fin dalla prima scena: senza farsi sentire dalla moglie (Alejandra Flechner), Strassera interroga il figlio piccolo (Brian Sichel), che lui stesso ha inviato a pedinare la figlia adolescente (Antonia Bengoechea), sospettando di essere spiato dai servizi segreti.
La moglie, intercettato il loro complotto, con una battuta sul fascismo li mette in ridicolo, stemperando la tensione. È la prima di tante situazioni che cercano la massima empatia verso i protagonisti di una rivincita esemplare, che culmina nella potente arringa finale nel segno del nunca más. Se l’intento di arrivare in tutto il mondo è più che legittimo (distribuzione Amazon in 240 Paesi), la sensazione di essere guidati per mano a ogni svolta drammatica rimane. Magistrale l’interpretazione di Darín, che coproduce con la sua Kenya Films. [Raffaella Giancristofaro]
Bones and All
Venezia 79 – Concorso
di Luca Guadagnino
Durata: 130′. Anno: 2022. Produzione: Italia, Stati Uniti.
Un’America randagia, animata da spiriti alla ricerca di identità e di un proprio posto nella società civile e, sostanzialmente, affollata da solitudini affamate d’amore. Bones and All, il settimo lungometraggio e il primo girato negli Stati Uniti da Luca Guadagnino, è un road movie ambientato sul finire degli anni ’80 che utilizza la metafora del cannibalismo per affermare i bisogni primari e relazionali dell’umana sorte, specie a vantaggio di chi ne viene escluso perché percepito diverso. «In questo mondo d’amore non c’è posto per i mostri», lamentano i due teenager protagonisti, una ragazza e un ragazzo accomunati da una difformità, che si innamorano e tentano, a loro modo, di accreditarsi nella cosiddetta “normalità”.
Il loro mezzo è l’amore che rende liberi di superare le ferite radicate nel sangue, nell’aspirazione ad evolversi e a trasformare gli istinti in gesti di volontà. Ben adattato in sceneggiatura da David Kajganich, dal romanzo di Camille DeAngelis, Bones and All è un affresco sui sentimenti universali che esprime con solidità e naturalezza la regia umanista del cineasta palermitano formatosi negli USA, racchiudendovi diversi tra i temi e gli attori a lui cari. Così come la spiccata cinefilia per i generi, in una decostruzione che qui incrociano i codici del “cannibal movie” con il melodramma, il road movie e il romanzo di formazione, allargato a un racconto sull’emancipazione che abbraccia gli emarginati e, in ogni caso, chiunque scelga di mettersi in gioco. [Anna Maria Pasetti]
The Son
Venezia 79 – Concorso
di Florian Zeller
Durata: 124′. Anno: 2022. Produzione: Regno Unito, Francia.
Florian Zeller torna ad affrontare malattie insidiose e legami familiari disfunzionali, trasponendo per il cinema un altro suo successo teatrale. Dopo la demenza senile di The Father – Nulla è come sembra, questa volta si parla di depressione giovanile. Ciò che sembra interessare al regista è ancora una volta l’impatto devastante di una malattia prima che sia riconosciuta come tale, nel momento in cui scombina equilibri già fragili. Sono le resistenze dei familiari a parlare di malattia che instradano il racconto verso un dramma senza vie di uscita.
Al tema principale si lega quello della transgenitorialità, che si verifica quando si diventa i propri genitori e si fa con i figli ciò che si è criticato in fase di crescita ai propri genitori. Il tutto in ambienti altoborghesi e location eleganti derivanti dallo status dei protagonisti. Ma dolore, psicologie e tensioni familiari sono universali, la ricchezza li rende solo più fotogenici.
Zeller confeziona abilmente un solido dramma, che non fa sconti e affronta fino in fondo i fantasmi dei personaggi messi in scena. La sceneggiatura è complessa e ricca di sottigliezze, la regia guida con grande padronanza del mezzo cinematografico, anche un po’ di sadismo, dove il dramma fa più male. Il parterre di star (Hugh Jackman, Laura Dern, Vanessa Kirby) è un valido supporto e ad Anthony Hopkins bastano, come al solito, poche battute per lasciare il segno. [Luca Baroncini]
Blonde
Venezia 79 – Concorso
di Andrew Dominik
Durata: 165′. Anno: 2022. Produzione: Stati Uniti.
Resta nella zona grigia tra biopic e dramma esistenziale, Blonde, che Andrew Dominik ha tratto dal romanzo di Joyce Carol Oates, e per questo ha deluso almeno parzialmente le aspettative. Dominik, vecchia conoscenza veneziana – nel 2007 portò L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, con cui Brad Pitt vinse la coppa Volpi –, compie un’operazione di riscrittura dell’icona di Marilyn Monroe, a sessant’anni dalla morte, che rilancia i lati più “scabrosi” della bionda per eccellenza del cinema mondiale. E non fa per questo un bel servizio alla memoria di Norma Jeane, che appare come una sgualdrina nevrotica, dimenticando quanto abbia saputo resistere alle “attenzioni” dei produttori, nonché le conoscenze letterarie e la passione per il teatro che l’avvicinò anche all’Actors Studio di Lee Strasberg.
Certo, nell’immaginario collettivo, cui il film attinge a piene mani, anche grazie allo splendore e all’eleganza di Ana de Armas, il ricordo di Marilyn è senza dubbio confuso e controverso, oscillando tra la “sex bomb” e l’instabilità emotiva ereditata dalla madre. Ma un film ambizioso come Blonde, girato nei veri luoghi in cui l’attrice ha vissuto e nella camera dove è morta, non può ridursi solo al dualismo traumatico tra l’identità pubblica di Marilyn Monroe e quella privata di Norma Jeane, indulgendo troppo sulle maternità perdute (con tanto di feto parlante) e sui particolari piccanti, come quelli con JFK. [Michele Gottardi]
Tár
Venezia 79 – Concorso
di Todd Field
Durata: 158′. Anno: 2022. Produzione: Stati Uniti.
Lydia Tár è una direttrice d’orchestra, altera e osannata, nominata a capo della maggiore orchestra tedesca. Donna e straniera, dovrà imporsi in un mondo tradizionalmente maschile e imporre agli altri scelte anche drastiche, dettate da un carattere di certo non accomodante. Il ruolo pubblico – descritto con inusuale attenzione – si alterna al profilo privato, fatto di amori che finiscono e che sembrano riaffacciarsi, di relazioni professionali basate su equilibri delicati, di preoccupazioni intime e improvvise durezze, di una maternità vissuta con aspra dolcezza. Tár, opera terza di Todd Field, è un ritratto d’artista, un character study preciso e affilato che indaga i chiaroscuri di una regina nel suo dominio, non smussando le asperità e abbracciando temi oggi molto in voga con una certa complessità.
Ma accanto all’attualità spicca in Tár la riflessione sull’interpretazione musicale come forma di controllo, se non di alterazione, del tempo, quel tempo che determina lo scorrere non solo di una partitura – in questo caso della mastodontica Quinta Sinfonia di Mahler – ma della vita stessa. E se il film si perde purtroppo nella parte finale in una progressione narrativa non del tutto risolta, restano impresse le lunghe sequenze musicali, i monologhi teorici, le insistite reiterazioni che Field gestisce con sapiente controllo.
Ovviamente Tár non esisterebbe – non sarebbe neanche pensabile – senza il magnetismo della sua protagonista: Cate Blanchett offre una prova quasi spaventosa, intrisa di un carisma di un’intensità ultraterrena, che ci fa sussultare a ogni impercettibile movimento, a ogni sguardo, a ogni gesto cristallino. Blanchett è Lydia Tár e sa imporsi con il potere di una bacchetta che, nelle sue mani, improvvisamente diventa magica. [Federico Pedroni]
Anhell69
Settimana Internazionale della Critica
di Theo Montoya
Durata: 74′. Anno: 2022. Produzione: Colombia, Romania, Francia, Germania.
Colombia, giorni nostri. I provini per un film distopico ambientato a Medellín vengono registrati come di consueto da regista e ufficio casting. Sono ragazzi queer, alcuni di loro raccontano alla telecamera le difficoltà per un orientamento sessuale “fuori dall’ordinario”, alcuni come hanno scoperto la loro omosessualità, altri invece episodi difficili subiti per la loro diversità.
Lo scorso anno il regista Theo Montoya ha portato al Festival di Cannes il suo primo cortometraggio, ma in questo 2022, alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (ogni tanto è bene ricordarne il nome per esteso), Montoya presenta il suo primo lungometraggio, Anhell69, in cui scrive, dirige, monta e cura la fotografia.
Anche qui ci troviamo di fronte a un documentario “sporco”, come sempre più spesso accade per questo genere così vivo nelle sue alterazioni. “Sporco”, in questo caso, nel senso che nasce da un’altra esigenza formale o di contenuto, il cinema di finzione, per cambiare intensione dopo la morte di uno dei ragazzi scelti per il film da girare, assumendo così le sembianze definitive del film documentario. Ma in questi casi il contenuto conta sempre più della sua forma. Sì, perché con l’incipit dei provini ci ritroviamo a seguire un flusso di storie di vita che successivamente si faranno ricordo commosso.
Scheggia di storytelling tutta sudamericana tra giovani e lotta per farsi accettare, sorge dalle loro parole un filo rosso legato al futuro. Risulta interessante scoprire come questi ragazzi lo vedano, quali speranze e quante rassegnazioni siano pronti ad affrontare o a digerire. Più che un film documentario, Anhell69 rimane allora un documento che ci parla, oltre il tempo e oltre l’oceano, dei sogni di un gruppo di ragazzi bloccati tra povertà e ghettizzazione per la propria identità sociale. Probabilmente non avranno mai vita facile. Sarebbe una chiusura forte del cerchio se in futuro Montoya, dopo qualche lustro di carriera, si fermasse un momento a riascoltare con la sua camera gli uomini e le donne che oggi sono solo ragazzi feriti, disorientati, ma vivi. [Francesco Di Brigida]
White Noise
Venezia 79 – Concorso
di Noah Baumbach
Durata: 136′. Anno: 2022. Produzione: Stati Uniti, Regno Unito.
Nel 1985 esce Rumore bianco, un romanzo chiave nel percorso di destrutturazione che Don DeLillo ha fatto dell’American Dream. Noah Baumbach, riprendendolo ora per il grande schermo, pur lasciandolo al momento storico descritto da DeLillo, lo attualizza alla luce della fobie e delle teorie complottiste dell’America contemporanea, che il Covid-19 ha accentuato anche in Europa. La trama racconta dei tentativi di una normale famiglia americana di affrontare la banalità quotidiana, sconvolta dall’arrivo di una nube tossica. E come sempre nei momenti più tragici emergono insicurezze e tragedie personali che si declinano verso il collettivo, forse perché, come dice un protagonista «la famiglia è la culla della disinformazione mondiale».
Perché è comunque il nucleo familiare a essere sempre al centro del cinema di Baumbach, in un racconto che, andando oltre il suo consueto minimalismo, mescola i diversi registri del surreale e del tragico, del paradosso e dell’ironia. E, nonostante tutti esorcizzino le piccole e grandi paure – la nube tossica, la depressione, la paura di morire, il nazismo che Adam Driver insegna correndo il rischio di diventare apologetico –, alla fine quella che salva i protagonisti, e probabilmente noi con loro, è la banalità di qualche piccolo gesto, magari la ricorrente spesa al centro commerciale. Non è un caso che il film finisca con una coreografia, tra l’onirico e il pop, nei corridoi del supermercato dove spesso i protagonisti si rifugiano, un rituale comune a tanti altri, che l’umanità si è data. E tutto attorno è brusio, chiacchiere vuote, rumore bianco. [Michele Gottardi]
Il signore delle formiche
Venezia 79 – Concorso
di Gianni Amelio
Durata: 134′. Anno: 2022. Produzione: Italia.
È incastonato tra due documentari, Il signore delle formiche. Quello del 2014 Felice chi è diverso, in cui Gianni Amelio percorreva la storia dell’omofobia in Italia attraverso testimonianze di grande impatto emotivo e politico, e Il caso Braibanti di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese (2020), che ha avuto il merito immenso di riportare alla luce il processo per plagio subìto dall’intellettuale, poeta ed ex partigiano emiliano nel 1968. Un processo da tribunale dell’Inquisizione, di cui ben poco si sapeva.
Ora Amelio ricostruisce e decostruisce quella drammatica vicenda, in un’opera matura e complessa che a tratti ha un sapore bellocchiano e che reca in sé molti echi pasoliniani, anzi un evidente omaggio al poeta di Casarsa: nel rapporto tra Braibanti e la madre sembra riverberarsi quello di Pier Paolo con Susanna Colussi. Ci troviamo ben presto immersi dentro la struttura di un film processuale che mette però alla sbarra degli imputati non il “culatòn”, ma tutto il resto della società a lui contemporanea in cui si vede in controluce anche il nostro fragile presente. Ed ecco dunque la famiglia con la furia moralizzatrice e demoniaca della madre e del fratello, l’ospedale psichiatrico dove il giovane compagno di Braibanti viene rinchiuso nel tentativo di “normalizzarlo” a suon di elettrochoc e anche il Partito Comunista, con l’aspra dialettica tra il giornalista interpretato da Elio Germano, uomo dallo sguardo libero e forse omosessuale velato, e un direttore del quotidiano fondato da Antonio Gramsci (in quella fase era Maurizio Ferrara, che però pubblicò un editoriale di fuoco in difesa di Braibanti) che vuole insabbiare.
Ma Amelio guarda con ironia e distacco persino la vita mondana gay dei salotti romani, esprimendo una disillusione esistenziale che sembra appartenergli da vicino. Il Braibanti di Luigi Lo Cascio non è una figura accattivante o seducente, tutt’altro. Con la sua passione di mirmecologo, preferisce osservare la società ordinata e solidale delle formiche piuttosto che conquistarsi le simpatie dei giovani allievi, che infatti lo detestano e che maltratta. Tranne uno, il sognatore Ettore (ottima prova per l’esordiente assoluto Leonardo Maltese), che ama disegnare e che si lega a lui di un sentimento delicato, per certi versi virginale. Dopo Hammamet, Amelio scrive un’altra pagina della Storia italiana, un processo mediatico che portò nel 1981 ad abolire il reato di plagio introdotto dal fascismo col Codice Rocco. [Cristiana Paternò]
Dogborn
Settimana Internazionale della Critica
di Isabella Carbonell
Durata: 84′. Anno: 2022. Produzione: Svezia.
Con il suo cortometraggio Boys, la regista svedese Isabella Carbonell era già stata selezionata per la Semaine de la Critique di Cannes nel 2015. Per la SIC 37 di questa Venezia 79 presenta il suo primo lungometraggio, Dogborn. Si tratta di una vicenda notturna su due fratelli senzatetto. La più grande (Silvana Imam) organizza protettiva la vita del fratello sordomuto (Philip Horos), ma gli espedienti non bastano mai, così la fortuna sembra finalmente baciarli quando, dopo il colloquio con il padrone di un locale, i due iniziano a trasportare merce con un furgone. Quando scopriranno su cosa si basa quel business la loro vita cambierà.
Carbonell tiene i piedi ben piantati in un sostrato di disagio urbano in forte contrasto con una giovane ed effimera borghesia, distratta dai propri piaceri. Da qui costruisce la sua piccola elegia su una fratellanza impigliata tra le maglie torbide del commercio di esseri umani. Temi principali sono, allora, il prezzo per la sopravvivenza, insieme alla sessualizzazione di minori per il puro svago di uomini ricchi. La relazione tra i fratelli invece è solida, e rappresenta quel raggio di luce che in questo viaggio nell’oscurità punta a cambiare le cose.
Regia al femminile molto più calibrata sui dettagli emotivi, con maggiore attenzione alle attrici e agli attori piuttosto che all’azione o a più agili nodi narrativi. Lo stile estetico predilige, per la notte scandinava, un realismo fatto di luci e virate su colori acidi, freddi o comunque crepuscolari. E mentre la musica elettronica batte il ritmo delle sequenze nella tipica frenesia sull’asfalto metropolitano, tutto il pastiche monta concentrandosi verso un movimentato finale da “Girl Power”. [Francesco Di Brigida]
The Banshees of Inisherin
Venezia 79 – Concorso
di Martin McDonagh
Durata: 109′. Anno: 2022. Produzione: Irlanda, Regno Unito, Stati Uniti.
Un uomo invita il suo amico al pub, come sempre. Ma stavolta l’amico rifiuta, non vuole parlare né condividere più nulla, afferma che l’amicizia è finita. Così, senza motivo. Da un incipit quasi aneddotico, da barzelletta popolare, Martin McDonagh disegna un racconto che si forma totalmente in fieri: non sappiamo cosa sta succedendo, non sappiamo perché. Sull’isola di Inisherin, nell’Irlanda degli anni Venti, Pádraic (Colin Farrell) non si dà pace e insegue l’ex amico Colm (Brendan Gleeson), finché lui annuncia che, se non smette subito, si taglierà un dito alla volta. Sullo sfondo sentiamo gli spari della guerra civile: un tappeto sonoro che accompagna gli eventi e li avvolge da lontano, a tratti forte e in altri lieve, altalenante ma costante. Perché una guerra ci sarà sempre.
Il rapporto tra Pádraic e Colm metaforizza la costruzione di un conflitto, i piccoli torti, la mancanza di gentilezza che può sempre degenerare. O forse no. È una commedia tragica e una tragedia comica, che inscena il grottesco dei rapporti umani, la loro assurdità. È anche uno straordinario ritratto degli isolani (con uno dei migliori Farrell di sempre) in cui natura si scontra con cultura, il complesso di superiorità dell’arte viene messo in discussione. McDonagh lascia Ebbing in Missouri e giunge a Inisherin per un’altra tappa nel suo cinema fatto di luoghi interiori e di volti che li abitano, qui una sorella moderna, uno scemo del villaggio e una “banshee” bergmaniana che predice sciagure. Un altro giro della sua ballata malincomica sull’essere umano. Un film denso e stratificato che ti inchioda, magistrale a consegnare solo alla fine il senso complessivo, peraltro ambiguo e prismatico. Gli isolani siamo tutti noi: ogni uomo è un’isola. [Emanuele Di Nicola]
Athena
Venezia 79 – Concorso
di Romain Gavras
Durata: 97′. Anno: 2022. Produzione: Francia.
Il lungo quanto stupefacente pianosequenza (10’ circa) con cui si apre il racconto si dà come dichiarazione estetica e poetica, poiché vi sono contenute tutte le istanze messe in gioco da Athena. Il suo vertiginoso incedere è infatti una marca linguistica che, mentre definisce quali saranno il ritmo e lo spazio della narrazione, stabilisce anche come questa sia declinata attraverso la moltiplicazione dei punti di vista e la sottrazione dei riferimenti cui ancorare quello dello spettatore. E come essi siano gli strumenti per coniugare potenza immersiva e prospettiva teorica, i temi della tragedia greca classica con lo “spaesamento della globalizzazione” definito da Todorov.
Fin dall’incipit, dunque, la forma del terzo lungometraggio di Romain Gavras sembra stabilire uno iato con l’ormai frequentatissimo cinema sulle banlieu, quello nel quale il conflitto sociale e culturale viene quasi sempre mostrato nella sua evidenza, per farsi riflessione sulle conseguenze, più che vibrante ricorso all’immagine-movimento. Athena è un film capace di mescolare vero e falso, tradizione e modernità, realismo e digitale, la violenza dell’immagine con l’immagine della violenza. Utilizzando uno stile di regia originale, che può attrarre o respingere, ma non lascia certamente indifferenti.
Tuttavia non è solo lo stile a informare l’opera, perché a sostenere la vicenda, lineare e semplice da sintetizzare, vi è infatti un’ossatura drammaturgica ben più stratificata di quanto possa a prima vista sembrare, organizzata attraverso cinque diversi punti di vista: quelli dei quattro fratelli del bambino ucciso, e quello di un poliziotto della Celere prigioniero dei rivoltosi. Merito dell’apporto di Ladj Ly — co-autore della sceneggiatura insieme a Elias Belkeddar e allo stesso Gavras —, che qui prosegue il discorso enunciato nel suo potente lungometraggio d’esordio, I miserabili. Un discorso pronto a farsi monito contro gli spregiudicati progetti eversivi di un’estrema destra sempre pronta a favorire, e poi sfruttare, ogni divisione. Perché, come ci ha insegnato Costa-Gavras, il padre di Romain, l’orgia del potere è disposta a fare carte false per tornare in auge. [Francesco Crispino]
Skin Deep
Settimana Internazionale della Critica
di Alex Schaad
Durata: 103′. Anno: 2022. Produzione: Germania.
Apparentemente un esercizio di stile per attori su personaggi che si scambiano il corpo, Skin Deep (Aus meiner Haut) è l’opera prima di Alex Schaad, regista kazaco cresciuto in Germania. La sua creatura filmica, in un’ambientazione alla Bergman, costruisce una scacchiera di relazioni che mettono in evidenza il tema dell’identità intrecciandolo con la gelosia, l’accettazione e il desiderio, in una metafora sul cambiamento di cui il testo filmico è giusto un’apertura per il pensiero e il sentire dello spettatore.
Leyla (Mala Emde) e Tristan (Jonas Dassler) sono una giovane coppia affiatata che approda su una strana isola per vivere un’esperienza di comunità. Lì i due non solo scopriranno gli strani riti che fanno trasmigrare l’anima dal corpo, scambiandoli, ma vivranno anche diverse declinazioni di sé stessi, sperimentando un gioco d’identità dove i corpi possono essere indossati quasi come vestiti, ma le conseguenze possono rivelarsi impensabili.
Un’atmosfera naturalistica e ovattata in un piccolo mondo immobile fanno dell’ambientazione una sorta di laboratorio new age per riflettere non tanto sulla spiritualità, quanto più sul dualismo che essa compone con la corporeità. La sceneggiatura sviluppa la sua intelaiatura proprio tra i rigoli che scorrono in mezzo a questo dualismo, al quale i protagonisti prestano anima e corpo in interpretazioni dalle sfaccettature prismatiche. [Francesco Di Brigida]
The Whale
Venezia 79 – Concorso
di Darren Aronofsky
Durata: 117′. Anno: 2022. Produzione: Stati Uniti.
“Elephant in the room”, dicono gli inglesi. Sostituiamo il pachiderma con un cetaceo, rendiamo la stanza una dimora e troviamo l’ultima fatica di Darren Aronofsky. Charlie (Brendan Fraser) è un professore fin troppo sovrappeso. Insegna online direttamente dal divano del suo salotto. Non tanto per pigrizia, quanto per impossibilità di muoversi. Coloro che gli gravitano attorno fanno finta di non vederlo. Di non vedere il suo corpo, di non vedere la sua solitudine, di non vedere la sua depressione. Così, Charlie mangia. Forse per mettersi in vista, per rendersi visibile.
L’eccesso era stato il protagonista del precedente film di Aronofsky, quel Madre! tanto vituperato e girato, proprio come The Whale, unicamente all’interno di un’abitazione. Il regista statunitense riparte proprio da qui: si ciba del suo stesso cinema. È un autore cannibale e fagocita le ossessioni per il corpo già mostrate in passato (quello drogato di Requiem for a Dream, quello “truccato” in The Wrestler, quello perfetto del Cigno nero), condendole con lo sguardo muscoloso di Noah. Tutte quelle immagini, tutti quei corpi, sono il sostrato del profilo di Brendan Fraser. Una silhouette posticcia ed esageratamente strabordante, sotto la quale si nasconde l’ennesimo personaggio in cerca (forse) di redenzione.
Prendendo le mosse da un’opera teatrale, The Whale trangugia prosa, poesia, letteratura, informatica, cucina, filosofia e religione. Fagocita tutto, proprio come il suo protagonista, fino a perdere il senso della misura. Ma in questo caso, quello che il più delle volte potrebbe risultare un limite si trasforma nell’unica forma cinematografica possibile. Snervante, ridondante ed eccessiva quanto si vuole, ma pur sempre evidente e visibile da qualsiasi angolo della stanza. Pardon, dello schermo cinematografico. [Simone Soranna]
Eismayer
Settimana Internazionale della Critica
di David Wagner
Durata: 87′. Anno: 2022. Produzione: Austria.
Per Eismayer, pellicola rude, disincantata e a volte romantica della SIC ci spostiamo dal Lido all’Austria, dove nella caserma in cui presta servizio il sergente addestratore più temuto dell’esercito arriva una recluta ribelle e sfacciatamente omosessuale. L’autore David Wagner ci offre un ritratto a tinte tiepide, ma solo visivamente, a metà strada tra un Gunny gay austriaco e un Ufficiale e gentiluomo 2.0, mentre la tensione drammatica tocca momenti parecchio forti.
Gerhard Liebmann e Luka Dimić impersonano egregiamente l’insospettabile sergente Eismayer, che nasconde la sua omosessualità con la sua tranquilla famigliola e i modi da macho omofobo, e la recluta Falak, un ragazzo promettente e libero, che sfida tutti volendo far strada in divisa. Una coppia di personaggi yin e yang, che dovrà scontrarsi inevitabilmente non tanto con la disciplina militare, ma con i pregiudizi che ne percorrono l’ambiente e il cuore dello stesso sergente.
La regia senza fronzoli sottolinea il duro contrasto tra la libertà sessuale e l’ipocrisia mascherata, urlandoci attraverso i suoi protagonisti il prezzo da pagare per la sopravvivenza. La paura camuffa la natura, mentre l’inoculazione di una vecchia cultura da rinnovare, sembra dirci tra le righe il film, è la causa del disprezzo sociale per ciò che si è.
La sorpresa più grande, senza ulteriori anticipazioni, sta però nella verità della vicenda, realmente accaduta. Anche qui Venezia 79 e la sua SIC 37 percorrono le strade impervie che conducono verso una coscienza d’integrazione sociale delle diverse sessualità. [Francesco Di Brigida]
Beating Sun
Settimana Internazionale della Critica
di Philippe Petit
Durata: 85′. Anno: 2022. Produzione: Francia.
La gentrificazione è uno dei processi urbani consequenziali al capitalismo globalizzato. In un quartiere popolare e malandato, più che creare nuovi servizi, parchi o centri culturali migliorando la vita degli abitanti, si preferisce investire in zone abitative di lusso, costruendo ex novo. Crescono vertiginosamente tenore di vita, valori immobiliari e attività commerciali, ma si cancellano così intere classi sociali locali per far spazio ai nuovi ricchi.
Beating Sun ci porta a Marsiglia, nel mezzo della piccola crociata del giardiniere Max (Swann Arlaud) alle prese con la preservazione di un angolo che, progetto alla mano, sogna di adibire a giardino pubblico. Riuscirà a creare uno spazio verde per la comunità o si piegherà al soldo del grosso investitore di turno?
Philippe Petit per la sua opera prima affronta un tema “green” insieme allo struggimento di un professionista di buoni propositi che, nell’oggi delle convenienze pecuniarie, appare sempre più come un cacciatore d’utopie. Il globale è indissolubile dal locale, cambiare il mondo ha una partenza di quartiere, sembra sussurrarci tra le righe del suo “pastiche”.
Il protagonista Arlaud è noto per Petit paysan – Un eroe singolare di Hubert Charuel, dove interpretava un allevatore di mucche da latte, e poi Grazie a Dio di François Ozon, dov’era una vittima di preti pedofili, ormai adulta. È un bel segno di crescita vedere come un attore percorra nella sua carriera personaggi che compongono mosaici ascrivibili alle complessità della società contemporanea. Ma oltre ai sani principi, a Tant que le soleil frappe (questo il titolo originale) non mancano piccoli “twist” che rendono la visione più movimentata, verso un finale non telefonato, fortunatamente.
Per Max tutto gira rincorrendo l’obiettivo di farcela. Migliorare la propria posizione lavorativa, quella famigliare e nel contempo essere davvero utile alle persone. Da segnalare anche la guest star Djibril Cissé, ex-calciatore dell’Olimpique Marsiglia, nei panni di sé stesso. Una scelta ben precisa, se si conosce la sua sensibilità ai temi sociali. [Francesco Di Brigida]
Margini
Settimana Internazionale della Critica
di Niccolò Falsetti
Durata: 91′. Anno: 2022. Produzione: Italia.
La Grosseto del 2008 è una città che sonnecchia un po’ piatta, tranne quando una band di aspiranti punk rockers la scuote, scatenandosi in sala prove senza il benché minimo pannello isolante. In realtà disturbano solo i vicini. Il pubblico nelle piazze scarseggia sempre per loro, ma i nostri piccoli antieroi di provincia non demorderanno in questo Margini di Niccolò Falsetti. Sono Iacopo al basso (Matteo Creatini), Michele alla batteria (Francesco Turbanti) ed Edoardo la voce (Emanuele Linfatti).
Seguendo un filone che racconta giovinastri più e meno sfaccendati e irriverenti, il film si sposa bene con predecessori quali Est – Dittatura last minute, La guerra degli Antò, Paz! e tanti altri, ma qui è la musica a far da motore. Falsetti acciuffa tre anime punk sbattendoci allegramente sul viso le loro storie, con una regia scanzonata che aspira a creare atmosfere da road movie. Ci riesce con tante scene in auto e il contrasto con numerosi campi lunghi, eppure restiamo sempre in una provincia anonima.
Il conflitto è il sottotesto portante per questi personaggi. Se Iacopo deve dividersi tra la band e le prove di viola, Michele ha una bambina da gestire con Margherita (Silvia D’Amico), mentre Edoardo dovrà convincere il patrigno Adriano (Nicola Rignanese) a prestare alla band la sua discoteca bruttina e anni novanta per un folle concerto che i ragazzi si ostineranno a organizzare.
Esiti tragicomici, lotte intestine tra amici e compagni di birre e canzoni urlate in macchina dietro al mangianastri: questo lavoro, in quanto a belle speranze distributive, ha discrete possibilità di fare il giro d’Europa. Un esordio solido e ben fatto che incuriosisce, intrattiene, ti fa affezionare ai personaggi parteggiando una volta per uno, una volta per l’altro. E poi qualcuno noterà lo zampino di Zerocalcare, prima per i suoi “disegnetti” su delle locandine, e poi pure in voce al telefono. Cameo molto azzeccato. Insomma, Margini riesce a creare la giusta empatia che dovrebbe trasportare lo spettatore verso i personaggi. Forse la nota più rock di questa Settimana Internazionale della Critica 2022. Anzi, la nota più punk. [Francesco Di Brigida]
Three Nights A Week
Settimana Internazionale della Critica
di Florent Gouëlou
Durata: 103′. Anno: 2022. Produzione: Francia.
Dopo aver firmato sei cortometraggi sempre partecipi alle relazioni nel mondo queer, Florent Gouëlou esordisce nel lungometraggio dirigendo una love story nata da un tradimento imprevisto. In Three Nights a Week troviamo il giovane fotografo Baptiste (Pablo Pauly), fidanzato con Samia (Hafsia Herzi), che durante un reportage sul mondo drag viene colto dal più classico dei colpi di fulmine.
Con genuina naturalezza Gouëlou ci porta nel mondo delle drag queen. Sarà Quentin, ragazzo affabile e sensibile celato da trucco, parrucco, abiti sfarzosi e frivolezze della drag Cookie Kunty (Romain Eck), a conquistare il fotografo. Il regista pone molta attenzione al gioco di scoperta e corteggiamento. Eck con un’interpretazione eccellente tratteggia molto chiaramente la vita faticosa e creativa di una drag e la resilienza del suo personaggio, unita all’inaccettabilità spesso ricevuta dal mondo etero, lo fa sembrare quasi un piccolo supereroe senza poteri per questa sua doppia identità. Che in realtà è solo una, ed unica.
Pauly, l’attore dal sorriso furbetto e velato di un nostalgico mix tra indolenza e ingenuità, ci ricorda vagamente un giovane Francesco Nuti. Il coming out con sé stessi, gli iniziali imbarazzi di un etero accompagnato da un gay, l’omofobia delle botte prese per la strada, una sorella accogliente e complice a prescindere da tutto sono solo alcuni degli elementi narrativi percorsi dal film con leggerezza lucida e mai banale. Lungi da drammatizzazioni posticce, ma inseriti in un quadro fatto anche di tanta quotidianità, dove convivono senza cercare lacrime facili o giudizi scontati dello spettatore. È un cinema fresco e sincero che le sue barriere, almeno quelle formali, le ha belle che superate.
Un’apertura queer della Settimana Internazionale della Critica a Venezia ha un valore simbolico e politico molto importante in un momento socialmente delicato come questo per il nostro paese. [Francesco Di Brigida]