Qui e là
Segnatevi il nome di Antonio Méndez Esparza: madrileno ma con molti anni trascorsi tra Messico e New York, dopo un master alla Columbia University, una serie di corti di qualità, e una cattedra di cinema ottenuta presso l’università di Tallahasse in Florida, con Qui e là ha fatto segnare un esordio col botto andando a vincere la Settimana della Critica del Festival di Cannes del 2012.
Partendo da un suo corto del 2009 (Una y otra vez, che aveva come protagonista lo stesso Pedro De los Santos che vediamo in azione in Qui e là e che nel giro di pochi mesi aveva raccolto premi prestigiosi in giro per il mondo quali quello per il miglior corto di finzione al Los Angeles Film Festival del 2009, il primo premio al Concurso de Cortometrajes Versión Española, fruttando poi anche al suo autore il DGA Student Award per il migliore regista latino della East Coast), con Qui e là Antonio Méndez Esparza racconta una singolare vicenda di controemigrazione dagli USA al Messico con un approccio spoglio e naturalistico che fa quasi pensare al documentario.
Diviso in capitoli che fanno da cerniera esterna al dipanarsi dei pochi eventi raccontati, Qui e là ripercorre l’odissea al contrario del peone Pedro: dopo aver lavorato per parecchi anni come immigrato clandestino negli USA facendo l’uomo di fatica e senza mai tirarsi indietro di fronte ad alcun tipo di impiego offertogli, decide di tornare a Guerrero, un piccolo agglomerato di case iniziate e mai finite abbarbicate in una delle tante favelas montane che il Messico allinea nelle sue sierras sperdute ai margini del mondo civile e di ogni forma di possibile apertura al presente.
Dopo l’entusiasmo iniziale che il suo ritorno ingenera nella piccola comunità abbandonata anni prima per inseguire il sogno dell’emigrazione verso quel “là” che il titolo sintetizza in maniera icastica nella brevità feroce di un anonimo avverbio di luogo, le magagne della vita di ogni giorno lo risucchiano in un attimo nelle loro spire avvolgenti: se le figlie faticano a riconoscerlo perché di fatto non l’hanno praticamente mai visto e la moglie suggella il ritorno del suo dimidiato Ulisse regalandogli una terza figlia (che però viene al mondo dopo una gravidanza particolarmente rischiosa e aggiunge un nuovo problema alla famiglia mostrandosi sin da subito gracile e malaticcia), la mancanza di lavoro che asfissia la regione e l’assenza totale di prospettive future lo precipita in poco tempo in un impasse dal quale non sembra facile vedere alcuna via d’uscita.
Dopo aver tentato invano di mettere su un complesso di musica folk che aveva a lungo sognato di costituire nei duri anni dell’emigrazione in quel “là” agognato da troppi e vissuto con amarezza dai pochi riusciti a superare gli sbarramenti della Frontiera, Pedro inizia a rendersi conto di come il proprio destino – come quello di milioni di altri diseredati della Terra come lui – sia irreparabilmente segnato dall’inevitabilità di un nuovo distacco nella speranza che una ripartenza alla volta del falso Eldorado a stelle e strisce gli possa permettere di sperare in un’ipotesi di sopravvivenza per la famiglia.
E così, dopo aver vagato come un cane bastonato da un cantiere all’altro alla vana ricerca di uno straccio di lavoro come manovale tuttofare e aver ricevuto una serie di umilianti rifiuti, l’uomo si vede costretto ad accettare l’ipotesi di una nuova partenza. Costretto ad abbandonare quel “qua” che è una terra matrigna incapace di dare null’altro che dolore e sofferenza, Pedro affronta una nuova e straziante separazione, mentre le figlie lo guardano uscire mesto dalle loro vite senza esser mai riuscito veramente a entrarci in un duplice fallimento sia come padre che come garanzia di un possibile futuro di fronte a sé.
Girato con una tecnica quasi documentaristica che presenta le vicende narrate come se fossero spaccati reali di vere vite notomizzate con la ferocia che solo il cinema documentaristico ha il coraggio di proporre non avendo compromessi estetici di alcun tipo da rispettare, Qui e là accentua questa sua vocazione di straniamento anti-narrativo impiegando nei ruoli dei personaggi in scena attori non professionisti che interpretano con straordinaria naturalezza personaggi i cui nomi corrispondono esattamente ai propri.
Ma non per questo si deve pensare a una produzione amatoriale, confondendo un lungometraggio povero per mezzi a disposizione e per messa in scena con povertà realizzativa in termini di capacità di veicolare il messaggio che vuole trasmettere. Tutt’altro. Incapace di accettare ogni forma di compromesso con le leggi che regolano l’universo del cinematografo come siamo ormai abituati a intenderlo nelle sue forme canoniche e spettacolari, Antonio Méndez Esparza sceglie la strada del minimalismo più spoglio per adeguare la cifra estetica del suo racconto ai toni cupi della tragedia del vivere che mette in scena.
Il risultato è un film che, anche se solo apparentemente, ha una dilatazione esagerata per le pochissime vicende che evoca sullo schermo ma sopratutto per l’impegno che richiede allo spettatore non abituato a un cinema di questo tipo. Una dilatazione che però non è altro che una conferma di coerenza da parte di chi sceglie di raccontare giustapponendo lunghe sequenze in cui non accade praticamente nulla e il dialogo che ne accompagna la nudità in fieri è il solo contrappunto verbale che abbia un senso di fronte a esistenze tanto spoglie e private di ogni forma di speranza.
Distribuito con coraggio (ma purtroppo in pochissime sale in giro per il paese, invase invece da centinai di copie degli stessi film dozzinali) da una piccola casa che ha avuto il fegato di scommettere su un prodotto riservato a pochi, Qui e là ha anche il pregio non indifferente di indagare – cosa rarissima questa – il fenomeno dell’immigrazione non tanto come sempre accade nel suo manifestarsi travagliato nei paesi di arrivo, quanto piuttosto nei contraccolpi che esso causa quando si converte in fallimento o diventa la sola uscita di sicurezza nel momento in cui la disperazione lo ripropone come unica alternativa possibile allo scivolamento nella rassegnazione senza via di ritorno.
Ma il film di Antonio Méndez Esparza non è soltanto una cronaca fredda e composta di una controemigrazione abortita. Coraggioso nel suo voler denunciare senza mai ricorrere alle scorciatoie del patetismo da cinema americano buonista, Qui e là mette anche il dito in molte piaghe con la stessa forza che hanno i documentari più riusciti quando illustrano la realtà limitandosi a farla vedere e lasciando che l’occhio dello spettatore tragga le dovute conclusioni assistendo incredulo al dipanarsi di un racconto troppo distante dal nostro quotidiano per poter essere credibile.
Ecco quindi sfilare di fronte ai nostri occhi secoli di arretratezza atavica, con un sistema sanitario così inefficiente da non poter contare nemmeno sui medicinali adatti per curare una donna come la moglie di Pedro giunta in ospedale con le complicazioni di una gravidanza a rischio, e una comunità come migliaia di altre in quelle sfortunate parti di mondo dove anche soltanto l’istruzione elementare è un lusso e l’emigrazione si presenta come la sola panacea possibile di fronte al male di vivere che ammorba tutti sin dalla nascita.
Quando alla fine, dopo quasi due ore di angosciate peregrinazioni tra vani tentativi di ricostruire la serenità di un nucleo famigliare e la progressiva presa di coscienza dell’impossibilità congenita di arrivare a un risultato facile per tutti ma non per i disperati della terra come quelli mostrati nel film, assistiamo da testimoni passivi allo straziante dialogo che annuncia la nuova separazione tra Pedro e la sua famiglia, ci si sente in colpa, rei di non essere nati anche noi in una parte di mondo dove manca anche l’essenziale pur vivendo ai confini con il paese in cui regna l’eccesso a ogni livello. E basta questo per dire che Qui e là ha colto nel segno nel suo volerci mettere di fronte all’ingiustizia che governa il mondo facendoci pesare l’imperversare dell’iniquità come se ne fossimo tutti corresponsabili.
Trama
Dopo aver lavorato per parecchi a New York come uomo di fatica, Pedro torna al villaggio messicano di Guerrero da dov’era partito e dove ritrova la moglie e le due figlie, per le quali è però poco più di un estraneo. Dopo aver aiutato la moglie a dare alla luce una terza bambina e aver cercato invano non solo di garantire sicurezza economica alla propria famiglia ma anche di mettere su un complesso musicale, Pedro non può che accettare il duro verdetto di una nuova emigrazione oltre il confine.
di Redazione