Quando c’era Berlinguer

Per molti Walter Veltroni è soprattutto se non soltanto una delle personalità di maggiore spicco che la sinistra italiana abbia prodotto nel corso degli ultimi trent’anni di tribolate contorsioni interne e colpevole autolesionismo. Ma per chi è addentro al mondo dello spettacolo in generale e del cinema in particolare, il suo nome è stato più volte associato a questo universo sia nelle vesti di critico militante (da anni tiene una rubrica fissa sulle pagine del popolare mensile «Ciak») che in quelle di organizzatore di eventi (nel 2006 fu uno dei principali promotori di «Cinema. Festa internazionale di Roma», divenuto col passare degli anni l’attuale «Festival internazionale del film di Roma»), arrivando perfino a farsi apprezzare come doppiatore (sua la voce del personaggio di Rino Tacchino nel disneyano Chicken Little – Amici per le penne).

Se poi si aggiunge che i suoi due romanzi Il disco del mondo. Vita breve di Luca Flores, musicista del 2003 e La scoperta dell’alba del 2006 sono stati trasferiti al cinema diventando rispettivamente Piano, solo di Riccardo Milani nel 2007 e La scoperta dell’alba di Susanna Nicchiarelli lo scorso anno, non deve quindi stupire che a quasi sessant’anni l’ex segretario del PD nonché ex sindaco di Roma, ex candidato Premier e quindi ex ministro dei beni culturali abbia deciso di cedere alle sirene tentatrici del passaggio dietro la macchina da presa.

Il suo esordio alla regia è avvenuto però con un prodotto che, pur sembrando alquanto semplice sia negli intenti apparentemente documentaristici che nel tema «facile» scelto da trattare, ha spiazzato quanti si sarebbero aspettati da lui un’opera di finzione piuttosto che una celebrazione per immagini di repertorio e interviste della più importante figura politica che la Sinistra italiana abbia conosciuto dal dopoguerra ai giorni nostri. Il suo Quando c’era Berlinguer è però molto più di un atto d’amore nei confronti del proprio mentore e maestro degli anni di formazione, presentandosi – forse in maniera involontaria almeno nelle intenzioni – come un ibrido a metà tra la riflessione oggettiva del documentario e il trasporto emotivo di un biopic sorretto da forti tentazioni poetiche.

Mettendo insieme una ricca messe di documenti filmici (alcuni dei quali inediti) e un’ugualmente massiccia quantità di interviste a parenti, amici, compagni di partito, collaboratori vari ma anche perfetti sconosciuti chiamati in causa a posteriori per verificarne la resistenza della notorietà, Veltroni ricostruisce gli ultimi dodici anni di vita di Enrico Berlinguer. Ovvero quella lunga e trionfale cavalcata che portò il leader sardo a trascinare un partito in crisi d’identità e di voti a contendere la maggioranza relativa nelle due camere alla DC nelle elezioni del 1976, diventando la forza di sinistra più potente e carismatica dell’antico continente. Al punto da essere in grado di svincolarsi dall’abbraccio soffocante della dittatura ideologica dell’Unione Sovietica per aprire a una moderna e indipendente visione di «eurocomunismo» sdoganabile anche presso quelle fasce di elettorato che in passato non avrebbero mai votato per il PCI.

Veltroni rievoca quei dodici e formidabili anni (fino alla tragica morte di Berlinguer avvenuta per emorragia cerebrale a Padova il 7 giugno del 1984 durante un comizio) scegliendo un punto di vista pericolosamente soggettivo. Ovvero imponendo la propria presenza attiva non solo in qualità di intervistatore e voce narrante dell’intero lungometraggio, ma arrivando persino a comparire come personaggio fisico in alcuni degli spezzoni filmati il cui collage ne costituisce buona parte dell’ossatura narrativa. Il che crea subito un effetto di contrasto straniante con il genere cinematografico scelto – ovvero il documentario – e il principio cardine che ne regola per assunto la focalizzazione. E cioè quell’oggettività che deve servire a raccontare come se la macchina da presa operasse senza che mani umani ne orientassero le scelte.

Una mossa questa destinata – forse intenzionalmente – a spiazzare ma per la quale Veltroni non teme l’accusa di essere accusato di equivoco estetico, visto che ribadisce in più di un’occasione quanto il suo presunto documentario sia di fatto l’atto d’amore soggettivo e sbilanciato di un ex giovane nei confronti del proprio mentore politico. Ovvero un personaggio a suo modo larger than life rivisitato a vent’anni dalla morte nella speranza di poter trovare risposte a domande rimaste troppo a lungo inevase sia dalla Storia che dalle stesse involuzioni di un partito orfano di leader di spessore analogo a quello di colui che seppe portarlo ai fasti di fine anni ’70. Ma allo stesso tempo questa anabasi nella memoria di un’era fatta attraverso la lente distorta della propria soggettività diventa anche la ricostruzione di una delle più tribolate e confuse stagioni della storia del paese.

Partendo da questa professione di fede e da questa impostazione in parte anomala, Veltroni si cuce addosso a proprio uso e consumo un ritratto sincero e appassionato del suo lider máximo scegliendo un approccio didascalico da «bignami per chi non c’era» in un’operazione che sta a metà tra la nostalgia del bel tempo andato e il pamphlet educato contro l’ignoranza dei tempi che corrono.

Quando c’era Berlinguer è, infatti, diviso in due blocchi chiaramente distinti. La prima parte è una sorta di introduzione nella quale alcuni giovani e meno giovani (anonimi scelti a caso per strada) sfilano in primo piano di fronte alla macchina da presa combattendo con l’imbarazzo di aver risposto o meno a tono a chi chiede loro se sappiano chi sia stato Enrico Berlinguer e quale sia stata la sua importanza nella storia politica italiana. Una serie di interviste che, grazie al misto di imbarazzante ignoranza o superficiale infarinatura storica messa in mostra dagli interrogati, serve da trampolino al resto del documentario che Veltroni usa come se fosse una bizzosa reazione a quelle titubanze culturali di chi non ricorda o sa troppo poco per passare l’esame di storia contemporanea. Come se il regista dicesse: «Adesso ve lo faccio vedere io chi era davvero Berlinguer!».

Il resto del film è appunto un ritratto pubblico e privato del leader comunista sassarese fatto come se fosse diretto a chi ha bisogno di un sacrosanto ripasso su un argomento mai studiato abbastanza a fondo: dopo qualche rapido cenno all’infanzia e all’adolescenza in una mitizzabile Sardegna pre-turistica (la morte della madre, il legame fortissimo con il padre, il fratello e le zie, nonché un fugace soggiorno in carcere a San Sebastiano durante i moti del pane nel primo dopoguerra), il collage di Veltroni ripercorre gli anni cruciali della storia patria in quel confuso e agitato susseguirsi di sussulti culturali e politici che furono i secondi anni ’70.

Sfilano così alcune delle grandi imprese del Berlinguer politico ma anche momenti molto particolari della sua biografia di uomo e di personaggio pubblico (la clamorosa affermazione del PCI passato in pochi anni dal 20 al quasi il 35 per cento nelle elezioni, i grandi bagni di folla in comizi plebiscitari rimasti celebri, le coraggiose e forse anche spavalde prese di posizione di fronte ai soviet, il cosiddetto «compromesso storico» e il rapporto con Moro, fino al milione di persone che seguì i funerali a Roma in una sincera celebrazione super partes di quella che forse resterà la personalità politica più amata della storia dell’Italia repubblicana).

Un ritratto a tutto tondo che a tratti rischia però di diventare una specie di santino da beatificare nel museo della memoria. Deciso a fornire a quegli stessi giovani più o meno ignoranti intervistati all’inizio un modello unicamente positivo cui ispirarsi per stimoli futuri, Veltroni passa infatti sotto silenzio dettagli della carriera politica di Berlinguer o fatti accaduti durante la sua reggenza da segretario del PCI (i noti contrasti con la corrente di Giorgio Napolitano o l’espulsione dal partito per manifesta omosessualità di quello stesso Pier Paolo Pasolini qui usato come cantore laico in versi del PCI) che avrebbero forse compromesso una presentazione volutamente fatta senza chiaroscuri.

Con tutte le sue buone intenzioni, l’opera d’esordio di Walter Veltroni dietro la macchina da presa mostra le corde forse proprio là dove sperava di avere i suoi maggiori punti di forza. Ovvero, quel credere di poter offrire un esempio ai giovani con un’operazione nostalgia che rimane tale e che non riesce a sollevarsi fino a diventare un puntello paradigmatico per il futuro per quanti vivono nell’incertezza del presente e resta invece incastrata in un passato prossimo rievocato con rischiosa passione poetica (si veda per esempio l’indugiare sulle pagine de «L’Unità» che svolazzano in Piazza San Giovanni per poi sfumare in immagini di repertorio accompagnate da una soave musica in sottofondo).

Trama

Attraverso materiali di repertorio e filmati inediti, ma anche numerose interviste a parenti, amici, compagni di partito e perfetti sconosciuti, Walter Veltroni ripercorre gli ultimi dodici anni di vita di Enrico Berlinguer, cercando di metterne in evidenza la vocazione rivoluzionaria del politico, ma allo stesso tempo i lati più reconditi di un carattere tutto sommato schivo e poco aperto. 


di Redazione
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