Profondo rosso
Profondo rosso di Dario Argento torna in sala in versione restaurata 4k.
La recensione di
Frédéric Pascali
Non v’è dubbio che esistano dei film iconici in grado di porsi al di sopra dei generi e del tempo, destinati a trasformarsi in miti immarcescibili. Profondo Rosso di Dario Argento, girato nel ’74 e uscito in sala l’anno successivo, appartiene di diritto a questo ristretto novero.
Quarantotto anni dopo, quello che doveva chiamarsi La Tigre dai denti a sciabola, viene riproposto al cinema restaurato e in versione 4k. Portatore di profondi cambiamenti, con i dogmi del genere messi a repentaglio a scapito di una scenografia mai banale, da subito stupisce per gli interni complici fidati della macchina da presa e gli esterni che si colorano della magnifica fotografia di Luigi Kuveiller. Autentiche pennellate di luce che descrivono lo stato d’animo di un’opera completamente intrisa della sua trama, in grado di edificare una casa della paura ricca di fascino e di irresistibile suspense. Una sarabanda di sequenze ed emozioni, scandita dalla musica ipnotica di Giorgio Gaslini e dei Goblin di Enrico Simonetti, che i costumi di Elena Mannini rendono tale a una sfilata di un’epoca intenta a consumare la sua rottura con le grandi rivoluzioni della fine degli anni ’60.
Profondo Rosso come il centro del Mondo dipana il suo racconto alla guisa di un pollicino di celluloide disseminando indizi e narrazioni che sono dei veri e propri innesti di arte contemporanea. Ogni scena è una composizione che sottrae allo spettatore parte delle sue sicurezze per trascinarlo all’interno di quelle paure che il subconscio registra sin dall’infanzia. Il dolore dei protagonisti è modulato per essere avvertito, compenetrato in tutta la sua violenza, riconoscibile e traducibile dalla nostra mente. Il richiamo all’infanzia è predominante, i nostri incubi di bambini restano in agguato per tutta la vita, ci scrutano, pronti a scardinare la cassaforte dei ricordi più belli.
Profondo Rosso è cinema e teatro allo stesso tempo, due corpi che si fondono sospinti dai primissimi piani, i particolari, i dettagli, le carrellate in avanti, le inquadrature di quinta. Tutto si amalgama in una specie di giudizio universale michelangiolesco nel quale gli attori più carismatici festeggiano la loro Pentecoste di lì a venire. Daria Nicolodi, David Hemmings, Gabriele Lavia, Clara Calamai, alla sua ultima interpretazione cinematografica, insieme a tutti gli altri traversano la prospettiva certa e, come I nottambuli di Edward Hopper, riprodotti in un notturno Blue Bar torinese, descrivono le recondite vie di un Signore mai risorto.
La recensione di
Paola Dei
Il film cult del 1975, rimasto per sempre nell’immaginario collettivo e considerato il capolavoro di Dario Argento, scritto e sceneggiato insieme a Bernardino Zapponi, prodotto da Salvatore Argento e Angelo Iacono, dal 10 luglio è di nuovo sul grande schermo, più fresco che mai, con la solita suspence che il tempo non ha smorzato e l’indimenticabile musica dei Goblin che rimase nella Top 10 italiana per un intero anno e ottenne un successo planetario. Il tema principale che connota tutti i piani sequenza del film è un loop ante-litteram; un giro di note ripetuto a oltranza sul quale si inseriscono passo dopo passo vari strumenti: dal basso all’organo, alla batteria. Elementi che lo rendono un brano ipnotico e inquietante che diventa la sintesi perfetta di quello che è il tema del film con indizi che si insinuano a poco a poco nella storia.
Il gioco di incastri è visibile e chiaro dai dai titoli di testa che sono scritti in bianco su fondo nero e scorrono sullo schermo insieme alla colonna sonora, per poi interrompersi lasciando spazio a una nenia infantile. Un incedere quasi narcotico che crea atmosfere perfettamente in sintonia con il contenuto del film. Argento già per 4 mosche di velluto grigio aveva cercato la musica rock, ma in quel momento non fu possibile assecondare il suo desiderio per motivi di produzione. In questa opera riesce invece nel suo intento e il risultato è sorprendente.
Il gioco di memoria che il regista utilizza crea cortocircuiti ed equivoci dove lo spettatore sul finale ricerca significati tornando alle prime scene. L’assassino si scopre solo in ultima battuta ma ci si rende conto che è presente visivamente fin dall’inizio dell’opera. Marc dice infatti: “Era soltanto uno specchio.. Non c’è mai stato un quadro, qui. Quello che vedevo era solo un riflesso. Avevo visto la faccia dell’assassino”. E noi con lui seguiamo lo stesso ragionamento. Dario Argento nelle scene ha usato le sue mani per far credere che l’assassino fosse un uomo, così come la musica infantile e un bambino che assiste a un omicidio portano a pensare ancora una volta che l’assassino sia un uomo e chiunque è portato a ricercare quel volto di bambino da adulto nei vari personaggi che costellano l’opera. Depistaggi che il regista sa utilizzare con rara maestria.
Il regista, otto anni fa, esattamente quaranta dopo la prima uscita del film, in un’intervista fattagli al Cineclub Arsenale del Cinema, ha spiegato che la cineteca di Roma e Bologna restaurarono Profondo rosso in maniera pressoché perfetta. In questa occasione raccontò di aver scritto la storia in sole due settimane in assoluta solitudine in una sua casa di Roma fin quando iniziavano le ombre della notte, momento in cui doveva uscire perché non c’era luce. L’idea del titolo gli venne invece mentre guidava la macchina e trovò nella frase profondo rosso una grande suggestione. Quando fece leggere la sceneggiatura a suo padre e suo fratello che erano produttori insieme a lui del film, non ebbe subito la loro approvazione. Avevano tanti dubbi, ma Argento fu imperturbabile e deciso a portarlo avanti così come lo aveva scritto.
Con la sua proverbiale ironia, l’autore ha ricordato che dopo il grande successo del film, i due avevano dimenticato il momento in cui non lo avevano apprezzato. Era un film diverso, e di fatto rappresenta nella filmografia di Argento un rito di passaggio fra il thriller, genere con cui inizia la sua carriera da regista, e l’horror, verso il quale indirizza le sue successive opere con scene debordanti destinate a creare sconcerto. Nell’opera, in linea con il carattere del cineasta, non mancano scene ironiche che mostrano un regista maturo, capace di governare la scena e inserire innovazioni e invenzioni visive che si sposano perfettamente con la musica. Il film fin dalla prima proiezione a Roma registrò il tutto esaurito.
di Frédéric Pascali e Paola Dei