Primo amore
Una ragazza allegra, solare, colorata, di nome Sonia (Michela Cescon), incontra, un giorno, un uomo misterioso e di poche parole di nome Vittorio (Vitaliano Trevisan).
Comincia, così, la fiaba nera dal titolo “Primo amore” di Matteo Garrone: come già avvenuto per “L’imbalsamatore” (2002), il giovane regista porta sullo schermo atmosfere e paesaggi di una bellezza glaciale, sfondo perfetto per relazioni mortifere. La natura e gli esseri umani sono, infatti, visti attraverso gli occhi del gelido protagonista: un orafo a caccia di Assoluto. L’inquieto Vittorio non si accontenta di foggiare donnine in oro a forma di spillone: ad un certo punto, decide di plasmare, secondo i propri modelli, un essere umano, Sonia. “Ho sempre cercato prima il corpo, poi la testa. Non ho mai pensato che potesse essere il contrario” – afferma, stupito, prima di dare inizio all’opera di trasformazione della malcapitata e fragile ragazza. Se, all’inizio della loro relazione, Sonia regala, significativamente, a Vittorio una sciarpa, fonte di colore e calore, ben presto si assiste ad un ribaltamento: a prendere il sopravvento è il mondo senza sentimenti, senza colore, senza calore dell’uomo. “L’amore è più freddo della morte”, titolo di un’opera di Fassbinder, è l’amara riflessione che il film di Garrone suscita in chi guarda.
In effetti, Primo amore non fa che rappresentare uno dei tanti rapporti sado-maso possibili tra due esseri umani incompiuti: se la tenera e ingenua Sonia dichiara di piacersi solo se piace al suo uomo, l’ apparentemente granitico Vittorio sembra crollare quando, tornato a casa, solo per un attimo, non trova la sua vittima.
Insomma, siamo veramente in presenza di dinamiche psicologiche affini a quelle dei film del già citato Fassbinder: come non pensare, guardando Primo amore, a Martha o a Le lacrime amare di Petra von Kan? Garrone realizza, dunque, ancora una volta, un’opera angosciante e perfetta, in cui lo stile, ineccepibile, è tutt’uno con la materia trattata. In altre parole, l’ossessione dell’orefice Vittorio per l’Assoluto, spiegata magistralmente attraverso il monologo finale sugli insegnamenti paterni, sembra essere una sorta di metafora della severa e rigorosissima ricerca artistica di Garrone.
Non sempre il desiderio di Perfezione uccide: a volte, può semplicemente essere la spinta, e lo spunto, per un film freddamente perturbante come questo!
di Mariella Cruciani