Prima danza, poi pensa. Alla ricerca di Beckett

La recensione di Prima danza, poi pensa. Alla ricerca di Beckett, di James Marsh, a cura di Gaia Serena Simionati.

Presentato fuori concorso al 41Torino Film Festival, Prima danza, poi pensa. Alla ricerca di Beckett è il film di James Marsh ben scritto da Neil Forsyth. Il film incasella la vita dello scrittore irlandese Samuel Beckett, dai tempi in cui combattette nella resistenza francese durante la seconda guerra mondiale fino all’ottenimento del Nobel per la letteratura nel 1969.

Famoso principalmente per l’opera teatrale En attendant Godot, su Beckett, il critico Vivian Mercier scrisse: “Ha realizzato il teoricamente impossibile. Un’opera in cui non succede nulla, ma che tiene incollati gli spettatori ai loro posti. In più, considerando che il secondo atto è una ripresa leggermente differente del primo, ha scritto un’opera in cui non succede nulla, due volte.” Volendo essere cattivi si potrebbe citare Mercier anche per Prima danza, poi pensa. Alla ricerca di Beckett, in cui non succede moltissimo. Ma forse è questo il vero pregio e sapore del lungometraggio: la capacità che ha di buttarti, come da un burrone, su dialoghi asciutti, umorali, terracquei. E con loro, origina una sorte di sorgente fatta di parole, che portano vita. La stessa, scollata, che vive Godot. E, a tratti, Beckett stesso.

Vero: non succede molto. 1969 Beckett ritira il Nobel e si sdoppia. Si perdona, si accusa, si implora, è un uomo, a dire di Marsh, che è consapevole dei suoi errori e non li nega. In un finale di vita quasi in metempsicosi, Byrne davvero eccelle nella performance. E anche questo ce lo facciamo bastare. L’amicizia e la stima prima con Joyce e con Carl Gustav Jung poi, lo aprì in due. Specie nel capire il devastante rapporto che il film racconta egli ebbe con sua madre. Una peggio delle SS. E poi vengono le donne, semi amate. Queste sono già involontariamente segnate a priori, dall’ibrida mancanza di amore che la madre gelida gli instilla. Questa vita ricca, è infarcita però da dialoghi feroci come spade e quindi, indimenticabili. Se non altro per le ferite che lasciano. Anche in chi osserva e rimane colpito come da dardi.

Samuel Beckett, Soprannominato “Oblomov”, come il protagonista dell’omonimo romanzo di  Gončarov, da Peggy Guggenheim, con cui ebbe una relazione nel ’37, era amico di Giacometti e Duchamp, con cui giocava a scacchi sulla Rive Gauche. Era quindi amante dell’arte e del Bien Vivre parigino. Ma fu anche partigiano della resistenza francese nella seconda guerra mondiale. Marito fedifrago e poi recluso. Noto drammaturgo, poeta, scrittore, E poi traduttore, sceneggiatore irlandese. Di sicuro ha dormito con me molte notti durante l’università e i miei studi di teatro inglese. 

Quindi si parte prevenuti, non solo per l’amore antico, che non si scorda mai, ma anche perché autore carismatico e potentissimo. Considerato uno degli scrittori più influenti del XX secolo, Beckett è il suo Aspettando Godot. E lo è anche nel film. Emblema, e senza dubbio significativa personalità, (assieme a Pinter, Ionesco, Osborne) di quel genere teatrale e filosofico che Esslin definì dell’Assurdo. Sebbene, la sua produzione artistica sia ampia. Egli infatti fu autore complesso, muovendosi tra radio, cinema e tv.

Icona del 20esimo secolo, Samuel Beckett ha vissuto una vita fatta di molti passati e il film ben li narra con dialoghi eccelsi. Essi sono incasellati in splendide cornici, fotografate in bianco e nero, cristallizzando così un’epoca andata e un sapere letterario mai dimenticato. Da vedere.


di Gaia Serena Simionati
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