Prigione 77
La recensione di Prigione 77, diretto da Alberto Rodriguez, a cura di Massimiliano Martiradonna.

Rappresentare il rimosso. Raccontare la Storia, vera, attraverso il cinema di genere. È quello che cerca di fare Alberto Rodriguez con il suo Modelo 77, in Italia tradotto come Prigione 77. Il film, come da titolo, è un prison movie ambientato nella Spagna dell’immediato post franchismo, tra il 1976 ed 1978, quando società ed istituzioni iberiche erano attraversate da forti scosse di assestamento, nella transizione traumatica verso la democrazia.
La Modelo era una prigione di Madrid, una sorta di lager (fuori dal tempo) di detenuti politici, detenuti generici e secondini. Un luogo senza Dio né legge, dove si perpetuava l’annientamento dell’individuo, dei diritti umani e civili, indipendentemente da reati o crimini commessi.
Rodriguez segue lo schema classico del cinema di genere carcerario, che è un canovaccio sulla fratellanza maschile, sulla comunità di sommersi che si coalizza, per umanità o spirito di sopravvivenza, contro i soprusi e le prevaricazioni dei kapò. Il suo grande merito è di aggirare le leve narrative, anch’esse consuete, della lotta politica, per far luce sugli ultimi tra gli ultimi, i reclusi in quanto ladri, omicidi, stupratori, senza ideologia né legge né patria, che davvero provarono ad organizzarsi in sindacato, senza bandiera né colore, per rivendicare amnistia, diritti ed umanità.
Prigione 77 è un film che sceglie di non essere politico, tuttavia, è quintessenzialmente politico, e il messaggio che si fa strada è sorprendentemente simile a un prodotto del tutto differente come Questo mondo non mi renderà cattivo di Zerocalcare: non lasciare indietro nessuno, fermarsi ad aspettare per poi andare avanti, lentamente ma insieme.
Tuttavia, malgrado le intenzioni e un modo di raccontare solido e visualmente poderoso, il film non ha emulato i fasti dei precedenti di Rodriguez (La Isla Minima specialmente), conquistando solo alcuni premi tecnici nell’edizione dei Goya dominata da As Bestas di Rodrigo Sorogoyen. Forse la bidimensionalità degli attori, seppure ottimi nei rispettivi ruoli, non è stata sufficiente a farlo elevare a parabola universale, quale era nelle intenzioni primarie del regista.

di Massimiliano Martiradonna