Prank – SIC 2016
Le vicende dei quattro giovani protagonisti di Prank (burla, scherzo) si svolgono per gran parte all’interno o ai margini degli enormi piazzali antistanti i centri commerciali, queste nuove, impersonali agorà del contemporaneo, punto di ritrovo e oasi nei deserti metropolitani. Là, anche quei giovani, addicted di hot dog, troveranno 24/7 qualche distributore di cibo altrettanto tossico ma sicuramente meno divertente delle droghe assortite che consumano con sorprendente facilità, Sorprendente, sul piano strettamente narrativo, perché la piccola gang di pranksters (burloni dunque, ma le vittime dei loro scherzi li chiamerebbero più che altro….connard,) costituita da Martin Jean-Sé e Léa (che sin da subito aggregano l’adolescente Stefie), non sembra guadagnarsi da vivere in alcun modo, legale o illegale, e sorge il sospetto che attingano ancora dalla famiglia le risorse necessarie ai loro consumi quotidiani. Del resto, siamo nel ricco e sviluppato Canada (sia pure in territorio québécois e francofono); ma che la gente da quelle parti, al di là del reddito medio, non stia proprio messa benissimo lo aveva spiegato, già 30 anni fa, Denys Arcand ne Il declino dell’impero americano (1986) e ribadito poi con Le invasioni barbariche nel 2003 (con ben altri accenti, legati alle dinamiche di un mondo globalizzato nella temperie post-11 settembre).
Ma nel 1986 il regista regista Biron aveva 2 anni e dunque i suoi riferirmenti culturali, sono sicuramente altri, nel segno dell’incrocio dei linguaggi, dove all’immagine si unisce la musica, il rock e il punk-rock prima di tutto, la street art, i graffiti, i cartoon, e oggi il linguaggio cross-mediale e le dinamiche della rete. E molto diversi, si capisce, sono i riferimenti cinematografici: un certo cinema indie americano, e, sul versante nazionale, lontano non solo da Arcand ma anche dai talentuosissimi turbamenti del più giovane Dolan, un autore e produttore indipendente, poco noto da noi e comunque poco classificabile come Denis Coté per il quale Biron ha diretto la fotografia di Bestiaire (2012). Da lui Biron ha sicuramente attinto l’interesse per gli ambienti e le persone ai margini e solitarie (il regista, qua alla sua opera prima nel lungo, aveva esordito nel 2010 con il cortometraggio Le fleurs de l’age, dove raccontava una giornata d’estate di quattro bambini soli), come pure l’idiosincrasia per ogni analisi sociologica.
Nel film il personaggio più interessante è del resto quello di Stefie che prima di essere cooptato nel gruppo (ma per meglio dire agganciato come vittima da sfruttare e ridicolizzare, anche se poi le cose andranno un po’ diversamente) è un adolescente solitario, un po’ sovrappeso, dall’aria sfigata, ma abbastanza nerd per condividere la passione dei tre: filmare con il cellulare le loro “imprese” da postare immediatamente in rete. Stefie stesso fornisce molti spunti creativi per alimentare la fervida fantasia del gruppo impegnata a sfornare per tutto il film e senza un attimo di pausa scherzi provocazioni e bravate (spesso a sfondo sessuale e soprattutto…scatologico) che prediligono come set locali pubblici, sacri o profani – i supermercati come le chiese – e che richiedono rapida inventiva e buone performance attoriali, da “buona la prima”, per la messa in onda immediata. Purtroppo, e qua forse sta un limite nella sceneggiatura (scritta dallo Stesso Biron e da altri tre autori), le “provocazioni” hanno sì la fulminea velocità dei flashmob ma appaiono un po’ ripetitive e spesso goliardiche, mentre il graffio sui vizi e le ipocrisie della borghesia locale resta davvero assai leggero.
A nostro avviso, l’interesse maggiore del film è invece tutto interno alle dinamiche del gruppo. Non tanto per il classico meccanismo psicologico dove vittima carnefice e salvatore si scambiano di continuo le parti (altri film lo hanno assai meglio illustrato), ma per il rapporto, a nostro avviso anomalo, e in questo senso a suo modo “anarchico”, che essi intrattengono con la rete. La loro aspirazione non sembra far diventare i loro video virali, dunque non parlano mai di fan o follower al di fuori della loro cerchia (forse consapevoli che non sarebbero poi così tanti…). Essi vivono, come gruppo, dentro una corazza puramente autoreferenziale (che Stefie incrinerà, ma solo per un breve momento). Un ‘gruppo monade’ che opera in una società dove sembra scomparsa ogni forma di aggregazione sociale come pure di polizia e controllo (solo qualche custode o guardiano privato si ostina a dar loro la caccia) e dove soprattutto non ci sono più padri madri, fratelli, o altri amici con cui dialogare, o almeno interloquire.
In questo senso, Prank, forse anche al di là delle intenzioni e dei suoi limiti, è un apologo del mondo in cui viviamo.
di Redazione