Pitza e datteri
In una Venezia poco turistica ma investigata nelle pieghe meno spettacolari della sua periferia lagunare la piccola comunità mussulmana è in fibrillazione: i locali che ospitavano la moschea sono stati convertiti in un salone da parrucchiera unisex da una procace pettinatrice franco-turca, costretta a reinventarsi una vita dopo essere stata abbandonata in un mare di debiti dal marito fedifrago.
Esaurita una serie di goffi approcci con la responsabile dell’inatteso sfratto, i membri della variegata comunità internazionale che trova nel Corano il cemento della propria unione decidono di rivolgersi all’estero e riescono a farsi recapitare in loco dall’Afghanistan un imam, il cui arrivo messianico è visto non solo come la soluzione al reperimento di un nuovo luogo per la preghiera, ma anche come l’occasione per rinsaldare i principi della fede e rinfocolare negli adepti l’autentico fuoco della devozione.
Trattandosi di una commedia che strizza chiaramente l’occhio al macchiettismo deformante della grande tradizione nostrana dei primi anni ’60, le cosa ovviamente non vanno come sperato. Il religioso afgano è infatti un ragazzino di primo pelo e privo di esperienza la cui solida preparazione coranica non va a braccetto con la necessaria abitudine alla perfidia del vivere quotidiano in salsa italiota.
Non deve quindi stupire se le soluzioni da lui proposte per liberarsi della parrucchiera (prima una lapidazione nelle calli «come si fa dalle nostre parti» e poi un omicidio quasi perfetto con tanto di doccia alla Psycho ma organizzato in modo assai maldestro) finiscano tutte in grotteschi fallimenti, trascinando ben presto le sue smarritissime pecorelle sull’orlo di una crisi di nervi non solo religiosa.
E quando sembra che tutto sia perduto (e con le procaci e sinuosi curve della parrucchiera che riescono a far perdere la testa a più di uno dei membri della comunità distraendolo da quello che dovrebbe essere l’obiettivo principe dell’azione), ecco arrivare in aiuto il più inatteso degli alleati: in un fin troppo facile inno al «volemose bene» interreligioso, il rabbino della locale sinagoga offre all’imam e ai suoi di condividere gli spazi del luogo di culto ebraico senza che la cosa dia l’impressione a nessuno dei paladini delle due fedi di essere un affronto alla propria confessione.
Scritto e diretto da Feriborz Kamkari, regista curdo di passaporto iracheno sfuggito agli orrori di quella parte martoriata di mondo e da quindici anni cittadino d’Europa, questo suo quarto film (arrivato nelle nostre sale a cinque anni di distanza dal fortunato I fiori di Kirkuk che gli aveva regalato una qualche notorietà) è un tentativo coraggioso e al tempo stesso forse eccessivamente ambizioso di affrontare con leggerezza tematiche sdrucciolevoli quali l’integrazione tra i popoli e la convivenza possibile tra confessioni religiose troppo spesso sfruttate come pretesti per scatenare conflitti.
Se le intenzioni di Kamkari erano delle migliori, lo stesso non si può però dire dei risultati ottenuti sul piano pratico. Scegliendo di adottare il tono della commedia soft che guarda (per diretta ammissione del suo autore) ai maestri italiani del passato e a Pietro Germi nello specifico immediato, Kamkari non riesce a evitare che i suoi personaggi si convertano loro malgrado da dolenti rappresentanti di un mondo in bilico tra fanatismo violento e sdoganamento possibile in macchiette tragicomiche sfruttate per fini puramente drammaturgici e prive di un reale impatto a livello di simboli di quella pacifica comunità religiosa che vorrebbero forse rappresentare.
Autentica cartina di tornasole di questa rischiosa deriva di scrittura è il personaggio interpretato da Giuseppe Battiston (il solo vero volto noto all’interno del cast multietnico coinvolto nell’impresa): discendente di un’antica famiglia di aristocratici veneziani che nel suo palmares annovera anche dei dogi, Bepi Vendramin vive da anni come un esule nel sontuoso palazzo avito dove i sigilli dell’autorità giudiziaria sono il segnale tangibile di vecchi conti mai saldati col fisco ma anche la motivazione prima della sua conversione all’Islam, da lui vista come scelta di rottura e protesta contro un intero sistema di «corrotte sanguisughe» che mettono alle corde gente per bene.
Figurine fragili investite di urgenze comiche volte a stemperare le potenziali tensioni innescate dalla vicenda sono però anche gli altri componenti della variopinta e striminzita comunità islamica veneziana: Saladino, il giovane imam venuto dall’Afghanistan interpretato dal franco-tunisino Mehdi Meskar (cresciuto a Treviso e autore in proprio di cortometraggi), passa la prima parte del film con una simbolica benda sugli occhi perché deciso a non contemplare gli orrori della decadenza dell’occidente, finendo però col perdere la testa per una parrucchiera sculettante tra le calli.
Hassan Shapi, l’attore egiziano protagonista del dittico di Lezioni di cioccolato che il grande pubblico ricorda come maestro Jedi in Star Wars Episodio I – la minaccia fantasma, veste invece i panni di un mussulmano devoto cui tocca però l’onta di una figlia che, cresciuta nella liberale Venezia, va in giro vestita da scostumata parlando in dialetto come un gondoliere da cartolina kitsch. A Giovanni Martorana, palermitano doc con faccia torva adatta a facili trasformismi mediterranei, tocca invece il personaggio di un curdo senza patria che finisce col dormire in sinagoga dove ha il tempo di prodursi in una verbosa tirata sulla diaspora perenne del «suo» popolo, ma che finisce con l’essere involontariamente grottesca proprio perché infilata in bocca a un italiano che finge di parlare in modo sgrammaticato per risultare in parte.
E lo stesso dicasi per la scelta, non priva di facile retorica, di Venezia come esterno vivo in cui la vicenda viene ambientata: da sempre spacciata come porta tra l’Occidente e l’Oriente, alla città lagunare il regista curdo chiede di farsi interprete geografico e urbano di quell’incontro di culture e fedi che vorrebbe essere il cuore pulsante del film stesso. Se la scelta non sembra delle più felici e non fa che aumentare la sensazione che la sceneggiatura sia un bignami di luoghi comuni spesi per una nobile causa, di buono per lo meno c’è che Kamkari ne mostra un volto genuinamente inedito e poco cinegenico con calli degradate, muri scrostati e pieni di graffiti oltre che realtà ai margini del dedalo laccato che troppi film hanno da sempre sfruttato per coprire i vuoti delle proprie storie puntando tutto sulla grande bellezza degli esterni.
Pitza e datteri (titolo a effetto che vuole riassumere in maniera icastica e fin troppo scoperta il tema dell’incontro tra culture) avrebbe potuto essere qualcosa di più incisivo e meno svaporato se il suo regista avesse scelto di non voler insistere così tanto sulla commistione tra comico e grottesco associandone la mescola per trovare la giusta leggerezza con cui affrontare temi pesanti come quelli che ne sono al centro. E in questo lo avrebbe di certo aiutato la splendida colonna sonora sospesa tra sonorità mediterranee e ritmi da milonga opera dell’Orchestra di Piazza Vittorio e forse la cosa migliore di tutta l’operazione.
Le intenzioni di mostrare come la convivenza tra culture e confessioni agli antipodi sia possibile grazie alla reciproca comprensione erano più che rispettabili. Così come l’urgenza di far vedere al grande pubblico che l’Islam non dev’essere identificato con il fanatismo deragliato che sta insanguinando il Medio Oriente rinfocolando dalle nostre parti gli istinti allo spirito di crociata reattiva e alla diffusa insofferenza razziale.
Il fatto di averle però tradotte in un film in cui non si riesce a prendere sul serio quasi nulla (ivi compreso l’accenno ai kamikaze suicidi nel personaggio di Battiston che alla fine minaccia di far saltare tutto in aria con un ordigno artigianale degno dei rivoltosi del «tanko») rischia di convertirsi in un’operazione pericolosa che non giova a nessuno. Soprattutto se si considera a mente fredda quel che può succedere in tempi come i nostri a trattare con leggerezza temi come questo.
Trama
La pacifica comunità musulmana di Venezia è stata sfrattata dalla sua moschea da un’avvenente parrucchiera che ha convertito in un salone di bellezza il locale adibito a preghiera. Nel tentativo di riappropriarsi degli spazi per il culto, la variegata comunità chiama in soccorso un giovane e inesperto imam afgano del tutto inadatto a fronteggiare l’emergenza. Dopo una serie di goffi tentativi andati a vuoto, il gruppo alla fine riesce nell’impresa scoprendo in antichi nemici e nella forza della tolleranza reciproca la ricetta per la sopravvivenza in un incerto presente.
di Redazione