Piggy
La recensione di Piggy, di Carlota Pereda, a cura di Emanuele Rauco.
Al primo sguardo superficiale, Piggy appare come l’horror perfetto per il nostro tempo. L’esordio nel lungometraggio di Carlota Pereda, a partire da un suo cortometraggio, sembra un manifesto della body positivity, del disagio estetico che diventa esistenziale, dell’emancipazione dall’idea che la forma fisica sia specchio dell’anima; e infatti il film ha vinto parecchi premi, a partire da quattro candidature ai Goya, tra cui miglior film e regia. Eppure no, non è così.
La protagonista, la “maialina” del titolo (Cerdita in originale) è Sara, apostrofata in questo modo in quanto grassa e figlia di macellai da alcuni ragazzi del paese che la bullizzano, tra i quali anche una ragazza a cui è affezionata. Dopo un atto di prevaricazione particolarmente squallido, le adolescenti colpevoli vengono rapite da un uomo misterioso che sembra seguire Sara e la pone di fronte a una scelta: aiutare le ragazze o permettergli di vendicarla?
Pereda è anche sceneggiatrice di questo thriller che nel finale assume sfumature di orrore e che usa le sue premesse come grimaldello, mentre le spreca in modo abbastanza superficiale.
Per esempio, è buona l’idea di smarcarsi dal manuale ideologico dei temi poc’anzi elencati e affrontare la questione morale legata al male, alla violenza e alla vendetta, cercando echi della Carrie di King/De Palma, e altrettanto interessante è ampliare il discorso dalla singola ragazza, su cui si concentrava il corto, alla comunità del piccolo paese. Il passaggio però dai 15 ai 90 minuti spezza non solo la tensione, perché lo script fatica a gestire il cambio di passo e l’articolazione della struttura, ma soprattutto perché finisce per annacquare anche il cuore del suo discorso: questa versione tramuta una ragazza che per la prima volta vedeva qualcuno prendere le sue difese – seppur in modo atroce – in una sorta di angelo, nel condannare il bullismo perpetua lo stereotipo della ragazza grassa sempre passiva, che quando agisce lo fa in nome del bene superiore, senza personalità che non sia quella dell’angelo incompreso.
Il finale in una sorta di macello stile torture porn, con le urla delle vittime, appese come capi di bestiame, che ricordano quelle degli animali è di una programmaticità stucchevole, per non parlare dell’ultima inquadratura, in cui i tarallucci e il vino si sprecano. Piggy, nonostante l’aura di horror elevato, anche grazie alla fotografia in 4:3 di Rita Noriega che emula i colori pastosi della pellicola, è un’occasione persa, anche per fare del sano e pauroso intrattenimento.
di Emanuele Rauco