Pietà

Dopo il trionfo a Venezia, approda nelle nostre sale il diciottesimo film del cinquantaduenne sudcoreano Kim Ki-duk, aedo feroce e a volte cinico del male di vivere che attanaglia ogni società afflitta dal dominio del denaro e dall’assenza di valori, ma anche uno dei pochi autori in grado di fregiarsi di tale titolo ormai fin troppo abusato anche per registi che non avrebbero alcun titolo per esserne insigniti.

Crudele e a volte portato fino ai limiti della sopportabilità visiva, Pietà racconta la storia di una vendetta progettata da una madre decisa a non lasciare impunito il suicidio del figlio, toltosi la vita per non poter pagare i debiti da cui era sommerso e di fatto portato a commettere il gesto estremo proprio dal protagonista del film.

Ovvero un trentenne che fa ciò che faceva Rocky Balboa a inizi carriera: e cioè l’esattore dei crediti per conto di uno strozzino. Con la differenza che Stallone/Rocky menava solo qualche sganassone intimidatorio, mentre il ragazzone coreano – un senza famiglia privo di ogni scrupolo – è una macchina spietata che non disdegna alcuna forma di violenza (arrivando perfino a far gettare nel vuoto gli artigiani che non pagano i debiti per ottenerne così l’assicurazione per infortunio) pur di arrivare a riavere i denari prestati dallo strozzino sanguisuga per cui lavora e che soffoca i debitori applicando tassi del 1000 per cento sui soldi prestati. La sua è una negazione di vita in cui la legge del fine giustificato dai mezzi è la grammatica normativa di ogni gesto mentre la ferocia assassina con cui le “operazioni” vengono portate a termine è la sola modalità con cui si sa relazionare col resto del mondo.

Il ruolino di marcia della sua irresponsabile via crucis nella ferocia procederebbe senza scossoni tra una mutilazione e l’altra e un suicidio concausato ad arte se all’improvviso non gli venisse a mettere i bastoni tra le ruote una misteriosa donna sui quarant’anni mai vista prima e del tutto estranea ai gironi infernali di reietti in cui la giovane canaglia si aggira di solito. Minuta (è quasi la metà di lui in un efficacissimo e voluto contrasto visivo) ma ancora piacente, la donna si converte in pochi giorni in una specie di incubo privato seguendolo ovunque nelle sue missioni punitive e parandoglisi innanzi nei momenti più inattesi fino al giorno della rivelazione destinata a imprimere una svolta decisiva negli sviluppi del racconto: stando a quanto sostiene, sarebbe sua madre e sarebbe venuta a cercarlo per ottenere da lui il perdono per averlo abbandonato dopo averlo avuto giovanissima.

Incapace di credere a una verità tanto gridata pur nel suo silenzio dimesso, il ragazzone mette alla prova la donna spingendola a forme estreme di verifica (ivi inclusi uno stupro obbrobrioso e umiliazioni psicofisiche da devianza mentale). Ma quando la dolcezza e la capacità di sopportazione hanno la meglio sul cuore nero dell’esattore spingendolo a una forma di conversione quasi evangelica dal Male al Bene, ecco irrompere sulla scena la seconda parte del piano concepito dalla donna per rimettere le cose in pari ed ergersi a giudice supremo al di sopra dell’impotenza dei tribunali terreni.

La rivelazione della sua vera natura e del motivo per cui abbia inscenato un teatrino tanto efficace sono una sorpresa forse ancora più agghiacciante di tutta la ferocia messa in mostra fino a quel momento: piegato dalla pietà che la donna gli ha mostrato anche se sottoposta a ogni forma di vessazione fisica e morale, l’ormai ex esattore folgorato sulla strada di Damasco e pronto a convertirsi da boia in buon samaritano viene stroncato da una trovata geniale della donna, che lo abbandona proprio nel momento in cui gli si è resa necessaria, condannandolo a quella stessa fragilità emotiva in cui versavano le sue vittime di un tempo e riuscendo a resistere alla pietà che alla fine non riesce a non provare vedendo il falso figlio piegato e piagato da quel che crede un sussulto di amore materno mai provato in vita e che invece è un piano perfetto di vendetta in tutti i suoi dettagli.

Film feroce e programmaticamente ripugnante dal punto di vista visivo in molti suoi momenti (al punto da costringere anche gli spettatori più navigati a non accettare ciò che viene mostrato), Pietà aggiunge un nuovo e diremmo quasi necessario capitolo al romanzo di critica sociale che Kim Ki-duk sta scrivendo da anni. Questa celebrazione dell’esagerazione (il denaro che domina ogni cosa e che porta gli umani a compiere azioni di crudeltà inaudita, prima fra tutte una donna che risana un balordo a colpi di pietà materna per poi colpirlo al cuore con quegli stessi strumenti che ha usato per ripulirne il cuore di tenebra) è la cifra più evidente di tutta la sceneggiatura, tesa a puntare ancora una volta il dito contro il potere mistificatorio dell’arricchimento forzato e le conseguenze esiziali di isolamento solipsistico e di desertificazione interiore cui tale sete insanabile trascina. Un paesaggio di desolazione morale e di abiezione assoluta cui fa da contraltare perfetto l’ambientazione dell’intero film in un contesto di degrado paesaggistico totale dove loculi travestiti da monolocali dialogano con scenari di sfascio urbanistico sullo sfondo di macerie, detriti e immondizia.

Ma l’occhio di Kim Ki-duk sa andare al di là di questo urlo di dolore esistenziale, e sfrutta l’esemplare vicenda di vendetta che il suo film racconta per descrivere al mondo – lui nato in una famiglia modesta e costretto dalle vicissitudini di casa a lasciare gli studi e ad arruolarsi nell’esercito per poi dedicarsi al cinema da autodidatta assoluto ma di lusso –  anche le conseguenze materiali che la corsa all’arricchimento facile e al profitto a tutti i costi sta causando in una megalopoli come Seoul. Sullo sfondo delle aberrazioni della prima parte sfilano infatti quelle categorie professionali (piccoli artigiani e operai stipati in laide officine di un quartiere bidonville di Seoul destinato a essere raso al suolo per piegarsi alle logiche della cementificazione) stritolate dalle leggi di un mercato troppo folle per perdere tempo con l’umanità di chi un tempo aveva nel decoro della professione l’orgoglio di una medaglia.

Non ostante il titolo, di pietà non ce n’è quindi per nessuno, nemmeno per chi ne apprende il potere catartico – lo strozzino punito – dopo averla negata a chi gliela implorava. Ciò che resta è solo il suicidio inteso come strumento di rifiuto estremo di un mondo in cui è ormai impossibile riconoscere tratti di umanità e quelle poche tracce residue che resistono al degrado imperante vengono cancellate dal sangue che ricopre tutto. E non è infatti un caso che il film si apra e si chiuda con due suicidi, introibo e chiusa agghiaccianti di un viaggio al termine della notte della dignità perduta in nome del dio denaro.

Trama

Per vendicare il figlio morto suicida per non poter pagare i debiti a uno strozzino, una madre mette a punto e realizza un piano diabolico per vendicarsi del responsabile indiretto della tragedia che le ha distrutto la vita.


di Redazione
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