Piano, solo
E’ già tutto nel titolo del film il sentimento che accompagnerà per la vita Luca Flores, pianista jazz forse poco noto ma dal singolare talento, di cui il regista Riccardo Dilani, ispirandosi al libro di Walter Veltroni Il disco del mondo- vita breve di Luca Flores, musicista, racconta i momenti salienti della biografia,. La solitudine, così come viene raccontata nel film, non è quella che nasce dall’abbandono, dal disinteresse, dalla privazione o dal disamore. E’ un sentimento sordo e pesante che si fa strada nel protagonista nonostante la presenza forte e costante delle persone amate, un sentimento amplificato dall’eco indelebile di un tremendo ricordo, quello della morte della madre, di cui Luca si sente ingiustamente responsabile. Il senso di estraneità dalla realtà, e la difficoltà estrema, quasi patologica, di vivere i rapporti con lucidità ed equilibrio, sfoceranno nel delirio solipsistico e lo porteranno infine al suicidio.
Il binomio genialità e follia è da sempre un topos letterario. E’ arduo portare sullo schermo un argomento così complesso e al contempo abusato. E’ implicito il rischio di idealizzare e idolatrare i protagonisti. C’è chi ha tentato soluzioni estreme, come l’americano Gus Van Sant in Last Days, che nel raccontare la morte di Cobain (suicida come Luca Flores) ha voluto impressionare sulla pellicola quasi solo un’ombra, un’immagine nebulosa del protagonista, rifiutando la sostanza narrativa e dando invece spazio alle suggestioni e alle atmosfere che hanno accompagnato il cantante nei suoi ultimi giorni di vita. La soluzione di Riccardo Milani è opposta, meno audace e più classica: una narrazione assolutamente lineare e lucida, alla cui base sta la volontà di raccontare non il mito o il genio ignorato, ma l’uomo, scavando nell’intimità, svelando affetti, ricordi, ossessioni.
La macchina da presa spazia sugli ampi paesaggi, catturando i colori caldi dell’Africa, il rosso della strada sterrata dove il protagonista, bambino, ha perso la madre in un incidente, e si ferma poi sul silenzio delle montagne e dei pendii rocciosi nell’inverno italiano. Così l’ambiente africano, il precipizio immenso davanti alla vecchia casa di famiglia, le lunghissime spiagge deserte e il mare verde e trasparente, dove Luca si ripensa bambino, incarnano la dimensione perduta e felice dell’infanzia. E’ qui che ritorna da adulto, dopo molti anni, per sentirsi, come scrive in una lettera, finalmente felice. Ma quello che insegue è un sogno inaccessibile, su cui gravano l’angoscia esistenziale e il dolore del ricordo. E’ inevitabile il ritorno nella dimensione del presente che lui non sa affrontare, in una Firenze buia e notturna. Kim Rossi Stuart, sempre algido e distaccato, esprime particolarmente bene quel senso di alienazione che pian piano si impadronisce del protagonista. I primi piani ne rivelano il viso, spesso in penombra, l’espressione freddamente indecifrabile, che però pian piano si carica di note più calde, fino ad arrivare agli eccessi della follia, alle frasi ora sussurrate indistintamente ora gridate, a quell’abisso di delirio in cui si perde.
E’ molto efficace il modo in cui il regista descrive il progressivo precipitare del pianista in un isolamento quasi autistico, sottolineando come la musica sia per lui una necessità e un rifugio, ma al contempo un’ossessione che lo risucchia e lo distacca dalla terra. Il successo non serve a infondergli sicurezza, a restituirlo alla realtà. La musica è anche un cordone ombelicale che lo lega al ricordo della madre, ai momenti in cui suonavano insieme il piano. Per Luca il bisogno quasi maniacale di premere le dita sui tasti sfocia paradossalmente nella negazione di sé e del proprio talento, come nell’ultimo concerto in cui si rifiuta di suonare. Inizia pigiando i tasti con un dito solo, come faceva da bambino, e finisce appoggiandovi sopra i gomiti, quasi con disprezzo. La scena descrive perfettamente quella sorta di assenza del sé, di impossibilità di partecipazione alla vita che nasce come reazione ad una sofferenza esistenziale troppo intensa. E’ esemplare da questo punto di vista un altro momento del film, in cui il protagonista, solo, di fronte al piano, si taglia profondamente il dorso della mano e si condanna quindi all’impossibilità di esprimersi.
Tuttavia il suicidio di Luca non sarà un atto irrazionale, ma la lucida scelta di un uomo profondamente consapevole dell’impossibilità di liberarsi dall’infelicità e di poter condurre una vita “normale”. La musica come luogo espressivo delle emozioni, l’insostenibilità della sofferenza mentale, il potenziale distruttivo del ricordo, tutti questi elementi vengono combinati dal regista con sapiente equilibrio per tracciare la storia avvincente di una vita toccata da un fuoco oscuro e indecifrabile. Accanto a Kim Rossi Sturart, Paola Cortellesi e Jasmine Trinca, rispettivamente nei ruoli della sorella e della fidanzata di Luca, e Michele Placido nel ruolo del padre, contribuiscono a comporre un film calibrato e ben recitato, privo di eccessi melodrammatici ma al contempo commovente perché verosimile. Piano, solo è un film fatto di note che scivolano via rapide, di penombre, di lunghi primi piani e paesaggi limpidi, tutto intriso di una profonda, intensa malinconia.
di Arianna Pagliara