Perez.
“Se vieni arrestato e non hai soldi, ti affidano ad un avvocato d’ufficio. Se anche questo si rifiuta di seguirti, ti affidano a me.” Questa frase, detta da Perez, è forse la migliore spiegazione per un personaggio di perdente nei confronti della vita che, senza passione, esercita la difesa soprattutto di delinquenti che vengono giudicati dal Tribunale di Napoli.
Il film inizia bene con le immagini dell’avveniristico Centro Direzionale di Napoli, già utilizzato da Pappi Corsicato nel mediocre Il seme della discordia (2008), che è lì per non fare dimenticare una promessa mancata, il punto di partenza di un sogno che non è mai stato realizzato e forse voluto, l’ennesima occasione sprecata per tentare di invertire il trend di una città che merita una vera rinascita.
È un aggregato di grattacieli progettato dall’architetto giapponese Kenzo Tange, fotografato con bravura dal raffinato Ferran Paredes Rubio, autore delle immagini anche del film d’esordio di Edoardo De Angelis, che diventa protagonista del disagio del avvocato in crisi con se stesso e con il mondo. Quasi a volere rendere meglio la situazione di disagio di Perez, gran parte del film è girato di notte e il buio assoluto dipinge le situazioni più drammatiche, una per tutte il recupero di preziosissimi diamanti nascosti all’interno di un toro che farà una brutta fine. Curioso vedere che nei due titoli finora realizzati, il regista napoletano abbia puntato molto sui bovini, le bufale ed i tori, che hanno una parte importante nella storia, quasi volesse fornire un riferimento che ambedue sono molto legati alla realtà campana.
Perez., presentato fuori concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia, è un film di genere mischiato con le tematiche del dramma familiare. Vorrebbe denunciare la presenza massiva della camorra nella vita della città e, per fare questo, crea una storia che non sempre convince, con situazioni male sviluppate. Le entità dovrebbero essere almeno tre: l’avvocato e i suoi problemi, i cattivi, gli inquirenti assieme alla Magistratura che rappresentano il bene e la legalità.
Purtroppo, proprio quest’ultimo elemento poco interessa alla sceneggiatura che disegna i personaggi che la rappresentano in maniera approssimativa non permettendo di meglio capire il rapporto di scontro/incontro con gli altri due elementi narrativi. Poliziotti che non controllano seriamente l’appartamento dell’avvocato pur cercando un pluriomicida, giudici bonari e annoiati, un’assenza pericolosa nei rapporti tra chi infligge e chi subisce ingiustizie.
Edoardo De Angelis e Filippo Gravino, quest’ultimo autore dello script di un paio di episodi del Gomorra televisivo, da una loro idea potenzialmente interessante non sono riusciti a creare una sceneggiatura avvincente. La costruzione è corretta, ma mai originale o interessante. Visionando le immagini, si ha l’impressione di essere seduti nella comoda poltrona di casa propria in attesa di un finale prevedibile che concluda la visione di un film abbastanza scontato e che mai interessa per davvero.
La costruzione è molto televisiva, varie cose sembrano realizzate pensando al successivo passaggio sul piccolo schermo e la firma produttiva/distributiva di Medusa fa immaginare che tutto sia stato pensato per la parte forse finanziariamente più importante di questo titolo. Si sente la mancanza del movimento di macchina, troppe immagini sono primi piani che dovrebbero ‘leggere’ all’interno dei personaggi ma che alla fine diventano noiosamente ripetitivi e di maniera.
L’uso in molte scene di un colore con le tonalità del bianco e nero è bello ma priva della capacità di fornire vigore e profondità: bella la resa ma non funzionale per lo sviluppo narrativo. Difficile valutare la prova di Luca Zingaretti, qui anche produttore. La storia gira tutta attorno a lui, il film è costruito per averlo protagonista con l’intervento marginale di pochissimi altri personaggi che mai lo aiutano.
È bravo, come sempre, ma difficilmente riesce ad essere convincente come uomo emarginato dalla società in cui vive, non rispettato nemmeno dai colleghi, pesantemente contestato dalla figlia, con un tenore di vita che 25.000 euro all’anno probabilmente non gli permetterebbero dato anche il divorzio dalla moglie ed il probabile aggravio finanziario.Per caricare la figura del disperato, dell’uomo che ha rinunciato a tutto per avere una vita senza troppi problemi, della persona onesta che deve decidere se divenire uno come quelli che difende in varie scene, viene ripreso con la barba sfatta.
Il personaggio gli va stretto, forse non ha carpito le sue caratteristiche interiori o, più probabilmente, non è stato aiutato dalla scrittura che non ha previsto una struttura narrativa robusta mal utilizzando le poche figure di contorno. Più credibile Massimiliano Gallo quale camorrista con una tendenza alla psicopatia e un parlare molto forbito. Sa tutto di tutti, facilmente riesce a dominare l’avvocato che lo teme ma nello stesso tempo lo stima. È un pentito, vive protetto, cambia spesso di residenza, sembra un intellettuale ed, invece, è una ben oliata macchina della morte. È uomo d’onore, la sua parola vale più di qualsiasi impegno scritto, ottiene quello che vuole ma senza creare veri pericoli per la sua vittima e la figlia. E’ forse l’unico amico di Perez, è quello che lo giudica di più ma che non ha difficoltà a divenire suo complice nel recupero dei diamanti. Critica la mancanza di nerbo del uomo nei confronti della figlia libera di umiliarlo in pubblico ma nei tre anni dalla tragica scomparsa del suo ragazzo non ha mai avuto il coraggio di andare a trovarlo in cimitero.
Marco D’Amore, il Ciro di Marzio del Gomorra televisivo, è il fidanzato camorrista della figlia di Perez. Sembra un bravo ragazzo beneducato che per disgrazia aveva un padre malavitoso, ma si trasforma nel più violento dei violenti quando si sente in pericolo. Una buona prova ma senza livelli eccelsi.
Simona Tabasco come unica esperienza di attrice ha la mini serie televisiva Fuori classe nella sua seconda stagione ed in un ruolo sufficientemente marginale. E’ la peggiore fra tutti e mai riesce ad essere credibile, né come figlia ribelle, né come ragazza del giovane boss, né come figlia affettuosa. Sembra leggere le battute ed impostare il volto da cupo a meno cupo senza esserne convinta.
Probabilmente non ancora matura per un personaggio di questo tipo, danneggia notevolmente le prove di Zingaretti e del D’Amore. Edoardo De Angelis, cosceneggiatore e regista, addossa su se stesso molti dei limiti del film. Non riesce a fornire una linea univoca alla narrazione, scrive battute di maniera prive di qualche credibilità, probabilmente non fornisce vere indicazioni agli attori. Parte bene, sembra volere fare un film sull’emarginazione di un uomo e di una città prigioniera di tanti luoghi comuni, che presto si trasforma in un drammone familiare in cui Zingaretti affoga senza potersi difendere. Si dimentica del film di genere e si immerge in atmosfere da sceneggiata contaminata dalla telenovela latino americana.
È stato comunicato che Stefano Gallini Durante, produttore italo-americano della Code 39 Films, ha ufficialmente richiesto i diritti per potere realizzare oltreoceano una nuova edizione, non sappiamo se con le caratteristiche di remake o come rilettura di tutta la vicenda. La società fino ad ora ci risulta abbia realizzato solo un documentario musicale intitolato En La Caliente (2014), coproduzione cubana e francese. Speriamo che, se deciderà di realizzare il nuovo Perez trovi professionalità adatte e che non trasformi un film già non entusiasmante in un qualche cosa di inguardabile.
di Redazione