Per un figlio

Dopo una menzione ottenuta alla passata edizione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, un paio di sortite in festival internazionali, l’anteprima nazionale a ‘Visioni italiane’ a Bologna ai primi di marzo e una replica di prestigio al Festival del Cinema africano, d’Asia e d’America Latina di Milano appena concluso (dove l’autore era anche nella giuria del concorso  principale),  Per un figlio – lungometraggio d’esordio di Suranga Deshapriya Katugampala – arriva ora (dal 30 marzo) nelle sale italiane (e con buona copertura, dal Nord alla Sicilia). Di questi tempi, è certamente un evento non scontato, di cui va dato merito agli sforzi distributivi di Gina Films (che già aveva prodotto e distribuito un’opera assai coraggiosa come Io sto con la sposa), ma anche agli esercenti indipendenti (a Milano lo si vedrà al cinema Beltrade) o a istituzioni come la Cineteca di Bologna (per le date di proiezione per singola città si veda http://www.perunfiglio.it/proiezioni.php).

Per meglio inquadrare il film e la sua poetica va chiarito subito che l’autore, non ancora trentenne, è di origine cingalese, abita a Verona, è emigrato in Italia da bambino e solo da poco (dopo 18 anni di permanenza… ) ha acquisito la cittadinanza del nostro paese. Le identità migranti, la perdita o l’attaccamento alle radici all’interno delle comunità e delle famiglie di origine sono i fili conduttori di una produzione (rintracciabile su:  http://katugampala.com/) che prima di sfociare in questo film contava già diversi cortometraggi, ma anche video sperimentali e progetti di video partecipato come la webserie  Kunatu (Tempeste, 2013) in cui raccontava dal basso la comunità dello Sri Lanka nel contesto veronese  (su questa linea di ricerca si innesta anche un  suo progetto di più ampio respiro  che ha partecipato con successo al nuovo bando ministeriale MigrArti). Da segnalare anche che a sostenere concretamente il primo sviluppo del progetto di Per un figlio era stato, nel 2015, il Premio Mutti-AMM (un premio rivolto esclusivamente a quei registi non italiani ma che vivono e operano in Italia, tutt’ora ignorati dalla nuova legge cinema a dispetto delle istanze poste da numerose associazioni e dal movimento #peruncinemadiverso).

E’ dunque uno sguardo molteplice – interno ed esterno alla nostra società così come alla comunità cingalese – quello di cui Suranga Katugampala è portatore, uno sguardo che si nutre di identità “ibride” e che, proprio in virtù di questo, molto può rivelare anche a noi italiani, abitanti sempre più disillusi,  smemorati e incattiviti di una “piccola patria”. Risponde a questa prospettiva interculturale  ma anche in senso lato politica la scelta del regista di avere una troupe e un cast misti per valorizzare le professionalità del paese d’origine e metterle in relazione con quelle nostrane, creando intorno a un set a lui certo familiare (siamo appunto a Verona e dintorni) una dimensione che coinvolgesse tanto la comunità locale che quella degli immigrati cingalesi (a cominciare dal cibo preparato da uomini e donne volontari durante la fase delle riprese…).

Venendo alle vicende narrate, i protagonisti del film sono Sunita,  una donna cingalese di mezz’età (Kaushalya Fernando, una delle attrici più popolari in Sri Lanka, che ha aderito con entusiasmo sia al ruolo che al progetto del regista) e  suo figlio adolescente (bravissimo il giovane attore non professionista, il diciottenne Julian Wijesekara, scelto grazie a un casting milanese). Uno degli assi principali del racconto ruota attorno al conflitto tra madre e figlio e alle  diverse prospettive e aspettative rispetto al loro inserimento nella società italiana. Sunita non sente di appartenere all’Italia,  cui è legata solo dal lavoro ripetitivo  di badante, è una donna sfibrata da uno sradicamento per colpa del quale non è riuscita nemmeno ad allattare suo figlio come confesserà alla anziana e malata signora italiana (ben in parte Nella Pozzerle) a casa della quale si reca ogni giorno per accudirla. D’altra parte, il ragazzo vive il suo sogno d’integrazione, condividendo con i compagni di scuola italiani la routine quotidiana fatta anche di bevute e bullismo. Ma lui stesso è forse consapevole che non sarà mai accettato del tutto come “pari”, anche a causa di quella madre di cui in fondo prova vergogna, che non ha voluto nemmeno imparare l’italiano e che è ancora legata ai valori identitari della sua cultura (il rituale propiziatorio che “impone” al figlio per proteggerlo dai demoni).

Pur basato su un impianto narrativo minimalista e assai parco di parole, il film intreccia  livelli di lettura assai diversi, dalla psicanalisi  al sociale,  che hanno però in comune il tema dell’incomunicabilità: affettiva (la frustrazione per la madre “asciutta”, il desiderio per la prostituta dai grandi seni), linguistica (nel film si alternano tre lingue, compreso il dialetto veneto, ma la lingua più praticata è quella del silenzio), relazionale. E’ soprattutto qui che Katugampala offre diversi inquietanti indizi anche sul nostro malessere sociale, che non può che influenzare la pratica di una integrazione cui manca fondamentalmente il presupposto, ovvero la consapevolezza chiara della propria identità. A fare da scenario perfetto allo spaesamento e alla sostanziale solitudine che avvolge tutti i personaggi del film (ben simboleggiata dagli anonimi rettilinei che Sunita percorre ogni giorno col suo motorino e dove, tra i capannoni dismessi, si avverte solo la presenza di “centri benessere” e “sale-gioco”), è quel Nord-est devastato antropologicamente prima che economicamente   dove è ambientata la vicenda di “Per un figlio” (e pensiamo subito, naturalmente, a tanti film di Mazzacurati o, appunto, al recente Piccola patria di Alessandro Rossetto, 2014). E, sebbene il contesto  sia quello di alcuni paesini del cuneese, viene da pensare anche alla separazione  che regna tra la comunità italiana e quella cinese (qui con le vere seconde generazioni nate in Italia) in  A bitter story, recente esordio di Francesca Bono (era al Torino Film Festival e poi anche a Sguardi Altrove, Milano).

Al suo esordio nell’opera lunga, il giovane regista dimostra grande padronanza nei movimenti della camera, anche in spazi ristretti,  e un senso ben definito dell’inquadratura. Tutti gli aspetti formali concorrono poi alla riuscita  di un film che sembra inizialmente non decollare, ma cresce via via, sul piano narrativo ed emozionale, evita un finale consolatorio, rivelando a pieno quell’ “urgenza” del racconto di cui spesso Suranga Katugampala ha parlato e che molte volte manca al cinema italiano.

TRAMA

Provincia di una città del nord Italia. Sunita, una donna cingalese di mezz’età, divide le sue giornate tra il lavoro di badante e un figlio adolescente. Fra loro regna un silenzio pieno di tensioni. È una relazione segnata da molti conflitti. Essendo cresciuto in Italia, il figlio fa esperienza di un’ibridazione culturale difficile da capire per la madre, impegnata a lottare per vivere in un paese al quale non vuole appartenere.


di Sergio Di Giorgi
Condividi