Paradiso amaro

Non c’era bisogno dei due Golden Globe (già incamerati) e di 5 nomination agli Oscar nelle categorie più importanti per capire che il nuovo film di Alexander Payne è un’opera di grande spessore destinata a non finire nel tritacarne onnivoro dell’usa e getta che è ormai diventata la programmazione dei film nelle sale di tutto il mondo. Come i migliori titoli della sua scarna filmografia (“A proposito di Schmidt” e soprattutto il superlativo “Sideways”) divenuta di culto proprio per la sua programmatica anti-serialità commerciale, anche qui Payne si dimostra acuto cantore della gente comune di cui indaga le pieghe dell’anima con profondità quasi dolorosa mettendone a nudo meschinità e debolezze inguaribili.

E il protagonista del film è appunto uno di questi rappresentanti eponimi della categoria: passivo e apatico nel suo lasciarsi vivere restando attaccato al benessere che gli ha garantito il discendere da una delle più antiche famiglie di residenti bianchi sull’arcipelago delle Hawaii, Matt King ha da sempre abdicato al proprio ruolo di padre lasciando che l’intero peso della famiglia in senso lato ricada sulle spalle della moglie. Risultato: la figlia più piccola, di dieci anni, ha supplito a questo vuoto maturando molto prima del previsto, mentre la più grande, una diciassettenne a dir poco problematica, ha reagito con un rifiuto drastico rifugiandosi nella droga e finendo con l’essere parcheggiata in un collegio di lusso dove si cerca di rimetterla in carreggiata. Quando la moglie di Matt finisce in coma irreversibile a seguito di uno stupido incidente durante una sessione di sci nautico, la vita lo strappa dalla passività amorfa in cui ha galleggiato fino a quel momento costringendolo a riprendere in mano le redini della propria deriva. La sua metamorfosi è lenta ma inarrestabile: costretto tutto d’un tratto ad assumersi responsabilità cui si è sempre sottratto per viltà e accidia, Matt riesce a ricompattare i cocci della famiglia trovando nella disperazione della perdita la forza della coesione.

Da quel momento in poi il film sviluppa una seconda ma non secondaria tematica, ugualmente cara a Payne (come per esempio accadeva ai due protagonisti dell’addio al celibato on the road di “Sideways”): e cioè la ri-scoperta di se stessi attraverso un percorso di autoanalisi che, pur nella dolorosa via crucis cui costringe, porta alla luce una nuova identità e una rinnovata capacità di rapportarsi agli altri e di affrontare gli scogli della vita. Quando la figlia maggiore gli apre brutalmente gli occhi sulla moglie facendogli capire che l’incidente che le è stato fatale è avvenuto in compagnia dell’uomo con cui aveva un relazione adulterina, dopo un momento di iniziale e comprensibile sconcerto, Matt decide di risalire all’identità dell’amante segreto. La saldatura narrativa è, sul piano della mera scrittura ma anche degli esiti sullo schermo, a dir poco da manuale: mentre il cammino di rilettura del proprio intimo in chiave di ricostruzione di un’identità paterna procede attraverso il costante confronto-scontro con le figlie, la “quest” alla ricerca dell’amante della moglie permette di dare il giusto risalto all’altro grande tema del film, fino a quel momento lasciato volutamente in disparte: e cioè il rapporto che Matt (e sempre di rapporti si parla) ha con la propria terra, quelle isole Hawaii da troppi percepite come un paradiso da idillio per turisti a caccia di spiagge dorate e cavalloni da domare con il surf, ma in realtà presentate come un corrispettivo paesaggistico alla cupa desolazione interiore del protagonista. Come Matt abdica alla propria passività di padre assente per riassumere responsabilità agli occhi delle figlie, allo stesso modo egli assume un atteggiamento del tutto nuovo all’interno del clan allargato che è la sua famiglia di discendenti (quelli appunto del titolo originale): passivo e sottomesso alla volontà dei cugini più autoritari che vorrebbero vendere parte dei gioielli patrimoniali di famiglia a una multinazionale decisa a trasformare lembi di paradiso incontaminato in un resort di lusso, alla fine della pellicola Matt – che è amministratore del trust da cui dipende quel pezzo di incanto naturale – decide di non piegarsi alla volontà del branco imponendo la propria autorità sull’ingordigia commerciale dei parenti.

Si tratta cioè di un doppio percorso verso il recupero di un’autorità perduta: da una parte quella della figura paterna riconquistata attraverso un viaggio nel dolore della vedovanza e nella presa di coscienza del tradimento, e dall’altra quella del ruolo all’interno dell’azienda di famiglia, che Matt però vede come un’emanazione diretta non solo del padre (anch’egli avvocato), ma come il passaggio di un testimone simbolico da parte di tutti gli antenati di cui lui e i cugini dovrebbero essere i degni discendenti.

A questo complesso cammino di recupero di identità perdute fanno da sfondo esterni hawaiani mai visti prima al cinema: Peyne mostra l’arcipelago nella maniera meno turistica e invitante possibile. Le sue Hawaii sono cupe e piovose come l’anima dei personaggi che ci si muovono a disagio alla stregua di pesci disorientati e incapaci di trovare la propria strada nello sciame di correnti che ne agitano le acque oceaniche da cui sono sferzate. Un’immagine cui il titolo italiano dà ancora più risalto: se infatti quello originale (“The Descendants”) insisteva soprattutto sul legame tra la terra e la tradizione lasciando da parte il nucleo centrale della vicenda, quello italiano – una volta tanto non mortificante e riduttivo ma fortemente significativo nella sua vaga ascendenza dai “Tristi Tropici”di Lévi Strauss – sposta l’attenzione dello spettatore sulla desolazione di una terra che solo in superficie può sembrare un paradiso dato in premio agli umani ma che in realtà si rivela una prigione in cui le cupe fibrillazioni dell’anima si agitano lontane dagli scenari solari da sogno cui l’arcipelago è intimamente collegato nell’immaginario collettivo.

TRAMA

Discendente dei primi abitanti bianchi dell’arcipelago, Matt King è un avvocato benestante ma piuttosto apatico costretto a rimettere in discussione un’esistenza fatta di certezze incrollabili quando la moglie finisce in coma a seguito di un assurdo incidente nautico, lasciandolo con due figlie difficili di cui non si è mai curato e la sgradita sorpresa di essere stato da lei tradito con un agente immobiliare animato da loschi secondi fini. Obbligato a reinventarsi una paternità che ha sempre scelto volontariamente di evitare per essere stato a lungo un padre assente, King trova dentro di sé la forza non solo per ricostruire una famiglia insieme alle due figlie, ma anche di evitare che i membri del suo clan vendano dei possedimenti in paradisi incontaminati appartenuti da sempre alla famiglia e adesso a rischio di lottizzazione.


di Redazione
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