Panic Room
Al suo quinto lungometraggio, David Fincher si conferma come uno tra i più attenti indagatori dell’incubo dell’Occidente contemporaneo, anche se, con i tempi che corrono, conviene spostare il baricentro di riferimenti culturali fino a comprendere uno spazio globale astratto e in continua definizione, un’ecumene (una casa comune) che di fatto si vuole rappresentare come l’estensione dell’Occidente, con tutta la sua fede nella tecnica.
Quel cinema che per intenderci chiameremo “globale”, quello che presume un “immaginario collettivo”, in larghissima parte quindi il cinema statunitense, che più di ogni altro prodotto culturale ha contribuito a forgiare i sogni di ogni occidentale e neo-occidentale, ci appare sempre più come “immagine del mondo”.
Un mondo che attraversa una crisi paurosa, che vive nel terrore e nella paralisi dopo la terribile collusione dell’11 settembre che ha portato all’insostenibile rivelazione di un’assoluta coincidenza tra immaginario (filmico, innanzitutto) e realtà, rivelando l’esistenza di una “matrice”, per dirla con i fratelli Wachowski diMatrix, sorta di profezia per immagini in quanto summa di molti immaginari e primo (o ultimo) anelito a fuoriuscire dall’ecumene globale, attraverso la decrittazione dei suoi codici, spaventosamente coincidenti con i dati reali.
Ma se con Matrix siamo già in un ipotetico futuro (per quanto le categorie temporali crollino nella definizione frustrante di un’immutabile permanenza), con film come Panic room facciamo i conti con un presente riconoscibile e vicino. Siamo a casa.
Ed è proprio l’immagine della casa ad essere tra le più inquietanti ed efficaci nel thriller contemporaneo. La casa: un’immagine di sempre, vecchia quanto il cinema. Un archetipo mitico. Se negli anni de La casa di Raimi, il terrore era innanzitutto fisico, corporeo ed occasionale, episodico e seriale (un gruppo di amici decide di trascorrere un week-end nella casa di campagna: comincia così ogni sequel, ripetendo la medesima matrice), negli anni di Le verità nascoste, The others e Panic room la casa è la rappresentazione di uno spazio quotidiano minacciato da presenze invisibili e permanenti. Ancora una volta il terrore viene dallo spazio. Uno spazio non più cosmico. Uno spazio chiuso ma aperto a quanto il suo perimetro esclude. Uno spazio fortemente connesso a tutto ciò che è esterno e vive in diretta connessione con l’interno, come ci fosse un cordone ombelicale che lega due realtà parallele e strettamente dipendenti. Benessere e salvezza di chi abita dentro dipendono dal riconoscimento, dall’asservimento e dal controllo di chi sta fuori. Un’immagine inquietante in quanto specchio della casa (economica) comune in cui siamo costretti, la cui sussistenza dipende dall’assoggettamento di chi ne è escluso (o progressivamente incluso) e dal controllo spasmodico di ogni movimento eccentrico. Riconoscimento e paralisi sono i due estremi di questa logica elementare e binaria che trova in film come Panic room una rappresentazione fortemente stilizzata.
br> Il controllo passa attraverso il riconoscimento, quindi lo sguardo. E il regista di The game, Seven e Fight club imposta il suo film interamente sull’ossessione del controllo esercitato attraverso lo sguardo e sul senso panico che ne deriva. Lo spazio che racchiude la stanza del panico, il bunker nascosto (per di più dietro uno specchio, emblema dell’emissione dell’immagine) è uno spazio uterino collegato all’esterno da un cordone ombelicale di monitor, in grado di scrutare ogni angolo a garanzia di una perfetta integrità ed autosufficienza. Protagoniste del film sono due donne, madre e figlia, legate da un rapporto di forte dipendenza (la figlia è malata e necessita della madre) e connotate entrambe da una marcata virilità (Jodie Foster qui in una delle sue migliori incarnazioni di femmina forte). L’esclusione dell’elemento maschile e paterno, nel mito di un’autosufficienza protettiva e materna all’interno della casa utero (in affitto), trova un corrispettivo speculare nel materializzarsi della paura come penetrazione maschile. Gli aggressori sono tutti uomini. La lotta avviene per il controllo della stanza-utero, fonte di benessere e sopravvivenza.
La densità simbolica del film si colora di riferimenti socioeconomici nella rappresentazione degli aggressori come appartenenti alle minoranze etniche povere degli USA (e del pianeta): neri e sudamericani in primis. La lotta è per la difesa di uno spazio uterino di benessere, che si alimenta del mito di autosufficienza. Uno spazio che si difende dalle aggressioni esterne dell’emarginato, dal quale dipende la sua stessa esistenza (uno degli aggressori, Forrest Whitaker, ha costruito personalmente il bunker). L’unico controllo esercitabile passa attraverso lo sguardo. Uno sguardo capace di penetrare ovunque. Sguardo come sistema di sicurezza a circuito chiuso. Sguardo in grado di anticipare i movimenti, annientando qualsiasi suspense nell’esasperazione del suo fondamento teorico (appunto l’anticipazione) eppure in grado di effondere un senso panico, di avvolgere ogni dettaglio di un quoziente di inquietudine e minaccia. Il film di Fincher è allora il simulacro di un mondo la cui paralisi è inversamente proporzionale alla dinamicità dello sguardo.
Il cinema di questo mondo radicalizza ogni istanza narrativa cristallizzandosi in sceneggiature scarne dall’esito scontato e intensifica il dato visivo, fino al panico di un’esasperazione stilistica. Ma nel mare magnum del cinema ipertrofico ed autoreferenziale, Fincher (al pari dello Zemeckis de Le verità nascoste e dello spagnolo Amenàbar di The others) recupera una sorta di classicismo che riporta in superficie le qualità originarie del cinema americano. Ritrova una rappresentazione qui, in questi film della crisi, il principio duale originario e l’alternarsi delle coppie di opposti nella costruzione dell’azione e del senso. Una sorta di regresso ad un sistema binario fondato però sui presupposti inquietanti di un immaginario al collasso. Il finale di Panic room, film duellante, vede contrapporsi classicamente i primi piani di Forrest Whitaker, nell’atto di subire la punizione per essere stato un criminale da strapazzo (per necessità, per l’impossibilità di garantire un futuro roseo ai suoi figli, al contrario di quanto potrà fare mamma Foster, ex moglie di un ricchissimo farmacista) e dell’impavida Jodie (omicida per istinto materno). Un alternarsi che marca le coppie di opposti che animano il film, intensificandole e ponendole in forte analogia e dipendenza entro un sistema duale la cui matrice, al di là di ogni pronostico futuribile, si conferma tragicamente come disuguaglianza.
di Riccardo Triolo