On the Milky Road – Sulla via lattea

Diceva Pasolini che un autore cinematografico fa tre o quattro film nel corso della sua carriera e che gli altri titoli rappresentano variazioni sul tema. L’affermazione sta forse larga a Emir Kusturica. Se si ignora un peccato di gioventù hollywoodiano (Il valzer del pesce freccia), il regista serbo ha sempre raccontato in forma di ballata la sua patria ferita, smembrata, e la sua gente tormentata, vitale, ma condannata alla sofferenza e al randagismo. Anche On the Milky Road è una tessera di questo lunghissimo mosaico antropologico, ma è capace di vivere di vita autonoma perché il tempo ha consegnato al regista il filtro della memoria e la facoltà della conoscenza per ripercorrere i vecchi sentieri. Kusturica è lo stesso folle visionario di sempre, ma oggi mostra come il tempo abbia sanato alcune ferite di una storia truce e crudele, quella delle guerre balcaniche, pur rimanendo incapace di restituirle un senso. Il regista fa leva su due personaggi e racconta che nell’inferno solo il loro amore è possibile, anche se è un amore irrealizzato che vive nel ricordo e nel rimpianto.
A otto anni dal suo ultimo film, Maradona di Kusturica, il regista bosniaco, naturalizzato serbo, narra con una dolcezza che non gli riconoscevamo, la sua terra, le colline aride e pietrose, i fiumi e i canneti, i campi di mais, le case isolate. E la gente, tanta gente, che vive la guerra come un compito ineluttabile, una tara ereditaria, impressa nel dna, che può essere solo scalfita dalla musica e dal vino. Kusturica tenta di leggere il conflitto che ha smembrato la sua patria sotto una luce nuova. Fa trasparire l’umanità all’interno di una situazione disumana. <<L’unica cosa che abbia un senso è amare qualcuno, come si può”, afferma la Sposa. Sì, l’amore è l’unica cosa per cui valga la pena vivere, anche se la donna è destinata a saltare su un mina e il suo lungo vestito bianco affiora ogni tanto sulla superficie del fiume.
In Underground, forse il capolavoro del regista, ci sono molti indizi che conducono a questo film, ma anche la pretesa, qui assente, di dipingere un affresco sul destino dell’uomo slavo e sulla dissoluzione della Jugoslavia. Kusturica è rimasto lo stesso cantore dell’anima balcanica, poetica, sognante, zingaresca. Ma i vent’anni che separano i due film hanno lasciato il segno. In Underground, nonostante le polemiche scatenate dagli ultrà bosniaci e dai vari Bernard-Henry Lévy, Kusturica non aveva l’ambizione di spiegare chi aveva scatenato la guerra, ma sembrava raccontare il conflitto come un mix di tragico e di comico, come espressione di una cultura immodificabile affascinata da violenza, odio e passioni: un’analisi ostica e ingenerosa. Oggi il regista non si pronuncia più su quel passato: non dice niente sul teatro di guerra o sulla nazionalità dei combattenti (con l’eccezione della Sposa, serbo-italiana). La regia è barocca, allegorica, sensuale, travolgente, ma meno picaresca, smisurata, visionaria di una volta. Kusturica non si è riconciliato col passato, ma è disposto a ridiscuterlo in termini etici e religiosi (il regista nato a Sarajevo in una famiglia islamica si è fatto battezzare nel 2005) come sembra suggerire la parte finale del film (“quindici anni più tardi”) che mostra il protagonista nelle vesti di monaco.
In realtà Underground non voleva misurarsi con l’attualità politica. La sua verità era differente da quella della cronache giornalistiche. Il film aveva nell’invenzione la sua cifra espressiva. C’era però la nostalgia di una Jugoslavia multietnica e la constatazione della guerra come risultato della follia dei popoli. In On the Milk Road lo sguardo è più sereno, c’è una sintesi di felicità, disperazione e allegria. Anzi nella seconda parte del film il regista sembra abbandonare la vena tragicomica e il dinamismo iniziale a favore di un realismo magico con una love story fiabesca, surreale.
Ma le due parti del film hanno un cerniera rappresentata dalla natura, da un rapporto uomo donna creativo opposto alla devastazione dell’uomo armato, da un paesaggio irsuto ma non respingente. La fauna entra nel film fin dalla prima scena e non l’abbandona mai: il falco pellegrino, il serpente che beve il latte, la gallina stregata dalla propria immagine sullo specchio, le oche che sguazzano nel sangue del maiale appena sgozzato, l’orso nutrito da bocca a bocca, le pecore che danno rifugio ai protagonisti. Ma Kusturica non si culla nel panteismo e ci dà la scena più cruenta del film nel massacro del gregge che invade un campo minato.
L’interesse per la natura ha sottratto Kusturica a una più attenta vigilanza sui due protagonisti. Del Lattaio si dice solo che è stato reso pazzo dalla guerra (ha visto decapitare il padre con una motosega). La macchina da presa lo pedina però nel suo lavoro, lo ritrae intento a parlare e suonare per gli uccelli rapaci, a nutrire un orso offrendogli il cibo trattenuto dalle sue labbra. Cavalca un asinello per la consegna del latte e si copre con un grande ombrello nero, forse per proteggersi dal sole, più facilmente perché crede di evitare le schegge delle bombe.
La sua pazzia la si legge nella fissità che Kusturica ha saputo dare al volto del suo personaggio, ma nella fuga e nella caccia all’uomo questa pazzia sa tradursi in ingegno (sfugge ai nemici come Ulisse a Polifemo, nascondendosi dietro il vello delle pecore). Meno abbozzato è il personaggio della Sposa, cui Monica Bellucci offre l’intensità dello sguardo ma poco d’altro. Sappiamo che è serbo-italiana e che raggiunge la casa del promesso sposo contrabbandata dentro un tappeto. Ma è probabile che il livellamento delle voci offerto dal doppiaggio ne mortifichi la parte, sottraendole la difficoltà di pensare e parlare serbo avendo l’italiano come lingua madre.
Trama
In un villaggio dei Balcani in guerra il Lattaio è fidanzato a una giovane che ha trovato una Sposa per il fratello al fronte. Ma tra il Lattaio e la nuova venuta scatta un sentimento che li spinge alla fuga.
di Giorgio Rinaldi