Oliver Twist
La scelta di Roman Polanski relativa al suo ultimo film, Oliver Twist, non deve trarre in inganno lo spettatore. Il grande regista polacco, infatti, non ha voluto con questa sua opera semplicemente confrontarsi con il mondo letterario di Dickens. Il suo scopo era invece utilizzare la griglia contenutistica del celebre romanzo per continuare il proprio discorso espressivo, iniziato con i primi cortometraggi giovanili e giunto con Il Pianista al culmine della sua parabola poetica e formale. Roman Polanski, in sostanza, per moltissimi anni ci ha sempre parlato della sua storia, della sua personale esperienza di perseguitato e fuggiasco nell’Europa occupata dai nazisti, di bambino ebreo costretto a nascondersi e a rimuovere la propria identità per portare avanti una disperata lotta per la sopravvivenza. Tale percorso, dunque, non si è mai interrotto, diventando la vera e propria colonna vertebrale della filmografia polanskiana, filmografia densa di capolavori, e caratterizzata solo da pochissime battute d’arresto. E’ dunque chiaro come per chi non abbia approfondito l’universo polanskiano, Oliver Twist possa sembrare un’operazione produttiva dalle connotazioni tradizionali (addirittura commerciali), chiusa in un’architettura stilistica e visuale priva di invenzioni e in un modello narrativo di stampo classico. Quest’opera, invece, deve essere necessariamente analizzata criticamente esplorando un livello più profondo, nascosto, livello nel quale la sfera interiore/creativa del cineasta Polanski si fonde in maniera evidente con il dolore e la sofferenza di un’infanzia tragica, sconvolgente. Dunque, l’autore de Il Pianista e L’inquilino del terzo piano ha trasferito nella vicenda del piccolo Oliver Twist le proprie vicissitudine personali. Solitudine, abbandono, violenza, povertà, senso di perdita di radici e identità, Oliver Twist è il simbolo di una giovinezza negata, della pratica scellerata della sopraffazione dell’uomo sull’uomo, dello sfruttamento cinico delle debolezze altrui. In tal senso, Polanski ha giustamente messo a fuoco nel finale del film il drammatico rapporto che si instaura a livello psicologico tra vittima e carnefice. Quando Oliver apprende che il suo aguzzino, il laido e perverso ricettatore che lo costringeva a rubare per le strade di Londra, è in carcere in attesa di essere impiccato sente il bisogno di andare a trovarlo, sostenendo che in fin dei conti “era stato buono con lui”. Ebbene, si tratta del brano più drammatico e struggente della pellicola poiché evidenzia come l’esercizio della violenza in diversi casi inneschi una perversa spirale psicologica alla quale chi è vittima spesso non riesce a sottrarsi. D’altra parte anche Liliana Cavani, con Il portiere di notte cercò di descrivere questa condizione, cioè quella della vittima e del potere che il suo carnefice continua a esercitare forse per sempre. E’ un tema delicatissimo, quest’ultimo, che Polanski ha affrontato praticamente in tutta la sua carriera e che a nostro avviso ha trovato la sua massima espressione in special modo nella prima parte della sua attività con capolavori come Il coltello nell’acqua e Cul de Sac.
di Maurizio G. De Bonis