Old Boy

Joe Doucett è un pubblicitario con il vizio dell’alcol, separato dalla moglie e con una figlia piccola della quale si interessa poco. Vagando ubriaco per strada in una notte piovosa viene improvvisamente rapito e si risveglia il giorno dopo, un po’ stordito, in quella che sembra essere l’anonima stanza di un motel. Presto capisce però di essere chiuso dentro, picchia sulla porta con violenza, grida disperatamente, ma nessuno risponde. Non sa dove si trova, perché è stato rinchiuso in questo luogo, quanto ancora dovrà restarci. La sua inaspettata e assurda prigionia durerà venti lunghissimi anni, durante i quali – come apprende dalla televisione che gli è concesso guardare – viene anche accusato dello stupro e dell’omicidio della moglie. Nel corso del tempo, anche per non cadere preda della follia, scrive una serie di lettere che spera un giorno di poter portare alla figlia e fa costantemente esercizio fisico. Con pazienza infinita e sorprendente ostinazione cerca poi di rimuovere con un bastoncino, ad una ad una, le mattonelle del bagno, nella speranza di trovare una via di fuga. Ma quando è quasi riuscito nella sua estenuante impresa interviene qualcuno ad accelerare il corso delle cose, e Joe si risveglia confuso in un campo d’erba, vestito a nuovo, con tanto di portafoglio e telefono cellulare: è finalmente libero. Subito incontra Marie, una giovane assistente sociale che incuriosita dalla sua incredibile vicenda decide di aiutarlo a scoprire chi e perché, con tanta feroce determinazione, si è impadronito di venti anni della sua vita. Da questo momento in poi inizia un gioco perverso e violento, brutale e inarrestabile, fatto di enigmi e rivelazioni.
Remake del film omonimo del coreano Chan-Wook Park, Old Boy segue abbastanza fedelmente la trama dell’originale – tranne che per alcuni cambiamenti soprattutto nel finale – e in alcuni passaggi sembra perfino voler rendere omaggio al film coreano; ma lo spirito di fondo che anima le due opere resta sostanzialmente diverso. Nello specifico, il film di Chan-Wook Park – che ha ricevuto il Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes nel 2004 – si inserisce in una certa tradizione e punta molto sulla riflessione, quasi esistenziale, che scaturisce dall’input narrativo impiegato (anzitutto l’isolamento prolungato); di conseguenza anche l’utilizzo reiterato e quasi insistito della violenza va letto in relazione a un quadro più ampio che racchiude quelle tematiche spesso frequentate da certo cinema orientale (pensiamo a Kim Ki-Duk): la vendetta, l’autodisciplina, la punizione, il pentimento. Ancora, Chan-Wook Park dona coerenza e compattezza all’incredibile messo in scena perché lo satura di atmosfere allucinate e visionarie, facendo dell’ossessione e del paradosso i punti di partenza di un racconto che trova sensatezza e solidità, nonché grande forza espressiva e momenti di lirismo, proprio nella sua stravaganza ai limiti della razionalità.
Tutto questo non accade nel film di Spike Lee, autore dall’indubbia capacità e con alle spalle meritati successi ma che tuttavia qui sembra non trovare la giusta consonanza tra approccio registico e oggetto della rappresentazione. Nonostante le ottime interpretazioni degli attori – primo fra tutti un consumato Josh Brolin (già protagonista dello straniante e cupo Non è un paese per vecchi) nel ruolo di Doucett – nonostante la cura nelle ambientazioni e nella fotografia, resta infine la sensazione di qualcosa che stona, stride, non convince del tutto. La medesima vicenda raccontata da Chan-Wook Park viene in pratica riproposta con una nuova ambientazione (dall’Oriente all’America) e con attori che esprimo un sentire del tutto mutato: il coreano Choi Min-sik dava vita a un personaggio stralunato, sconvolto, a tratti chiuso in un doloroso solipsismo; Josh Brolin, con la sua corporatura pesante e massiccia, fa invece del suo Doucett soprattutto un risoluto uomo d’azione. Ancora, i toni visionari e claustrofobici, quasi onirici a tratti, presenti nel primo film, svaniscono nel secondo che si avvicina agli schemi più classici del thriller e dell’action movie. Il cambiamento di queste componenti non basta però a rinnovare e motivare fino in fondo l’operazione del remake, ma anzi determina direttamente una mancata coesione degli elementi e un senso di squilibrio tra le varie componenti del film. Con questo non si vuol dire che Old Boy di Lee sia un film privo di fascino o di spunti interessanti, ma il confronto con l’originale, che nel caso di un remake resta tendenzialmente difficile da evitare, ne evidenzia inevitabilmente alcuni difetti di fondo.
Trama
Un uomo d’affari vaga ubriaco, di notte, per le vie della città e all’improvviso viene rapito. Si risveglia confuso in quella che sembra la stanza di un motel, che diventerà una prigione dalla quale non uscirà per venti anni. Una volta fuori, la sua unica ossessione sarà capire da chi e perché è stato sequestrato. Una ragazza premurosa e gentile lo aiuterà nel suo disperato e pericoloso tentativo di dipanare questo angosciante mistero.
di Arianna Pagliara