O Lucky Man!
Dal Torino Film Festival 2022, un articolo di Francesco Grieco su il film di Lindsay Anderson presentato nell'omaggio a Malcolm McDowell.
Figura interessante quella di Lindsay Anderson. Del gruppo di registi inglesi del Free Cinema, Anderson è forse il più politicizzato e il più teorico. Nel suo cinema gli elementi drammatici si fondono mirabilmente con uno humour tutto britannico, dalle sfumature surreali. È così nel sessantottino Se…, il suo film più famoso, che sembra invecchiato non benissimo, ma solo perché viviamo in un’epoca lontana anni luce dai favolosi anni Sessanta.
Al Torino Film Festival 2022, nell’omaggio a Malcolm McDowell è stato incluso quello che appare come una sorta di sequel e superamento di Se…, e cioè il torrenziale e visionario O Lucky Man!, realizzato cinque anni dopo. Nel cast corale dove, con risultati volutamente grotteschi, molti attori interpretano più di un ruolo, non possiamo non citare Helen Mirren in tutto il suo splendore e l’ex membro degli Animals Alan Price, a cui sono affidati i bei momenti musicali, di gusto melodico mccartneyano, che fungono da interpunzione tra una sequenza e l’altra del film, e offrono allo spettatore più distratto un orientamento nella trama altrettanto utile di quello fornito dalle didascalie su fondo nero, con l’indicazione delle varie località in cui il film è ambientato.
Il protagonista indiscusso è McDowell, reduce da Arancia Meccanica, a cui il film di Anderson pare far riferimento in funzione parodica. Infatti, il Mick Travis di Se…, terminati gli studi, qui è pronto ad affrontare il mondo del lavoro, ma viene sottoposto a un lavaggio del cervello, una rieducazione alla società che ricorda per crudeltà la cura Ludovico. L’effetto è sempre quello della repressione degli istinti aggressivi, antisociali, per sostituirli con una correttezza che sconfina nell’idiozia.
Come il film di Kubrick, O Lucky Man! può essere interpretato come una critica alla violenza della società sull’individuo. Travis, giustamente paragonato da alcuni recensori al Candido di Voltaire, nelle tre ore del film passa dal ruolo di ambizioso oggetto sessuale, carrierista fino al midollo, a quello di portavoce di un ottimismo a metà tra i coach di autostima e i profeti laici, destinati all’incomprensione e al martirio. Nella ciclicità della sceneggiatura, il sorriso “obbligatorio” che all’inizio del film viene insegnato al gruppo di venditori della multinazionale Imperial Coffee, di cui Travis fa parte, non è molto diverso dallo “smile” che, nel finale, nella scena dei provini di un film nel film diretto dallo stesso Anderson (una messa in abisso del film inteso come set), Anderson in persona chiede al suo protagonista. Morale: anche il cinema vende qualcosa, attraverso il sorriso dei suoi divi.
È come se, nella prospettiva sociologica di Anderson, marxista-grouchista (si diceva prima del suo humour surreale, talvolta quasi buñueliano nella rappresentazione della borghesia e delle situazioni di stallo, senza via di uscita), l’industria culturale di cui il cinema è espressione non si allontani affatto dalle regole spietate e allo stesso tempo superficiali su cui si basa il commercio. Come canta Alan Price, i poveri rimangono poveri. Un pessimismo della ragione che ci sentiamo di condividere, sia pure a distanza di cinquant’anni.