Nymphomaniac – volume 2

L’ultima parte di Nymphomaniac – Volume 1 ci mostrava la protagonista Joe in un momento in un certo senso cruciale: quello della lucida e inquietante presa di coscienza della natura an-estetica del suo (non)sentire sessuale. Il passaggio che segue è logico e quasi scontato: la sospensione del sentire genera la tormentosa necessità di amplificare e potenziare in maniera esponenziale ogni sensazione. Al pari di chi è assuefatto ad una determinata sostanza e ne aumenta le dosi per continuare a percepirne l’effetto, Joe finisce per sovrapporre al (mancato) piacere sessuale il dolore, nel tentativo disperato di ritrovare la propria perduta sensibilità. Scivola dunque – perplessa, dubbiosa, eccitata e spaventata insieme – in una dimensione ben più fosca e torbida di quella in cui fino a quel momento ha vissuto, intrecciando indissolubilmente in una incontenibile urgenza sadomasochista godimento e sofferenza.

L’annebbiamento mentale della protagonista e la potenza delle sue pulsioni – che la rendono letteralmente schiava, al pari di una vera e propria dipendenza – affossano e sovrastano perfino il suo istinto materno: è qui che Von Trier si autocita richiamando le prime scene di Antichrist, attraverso l’uso della colonna sonora (Händel) e giocando con l’identità dell’interprete (la Gainsbourg).

Sostanzialmente in linea con il primo capitolo del film dal punto di vista estetico-stilistico, Nymphomaniac – Volume 2 ne estremizza le tendenze e ne dispiega le premesse, concretizzando ciò che nella prima parte dell’opera è intuibile ma non ancora mostrato. Il procedere per accumulazione/elencazione che aveva caratterizzato il Volume 1 lascia ora il posto alla sostanza di una narrazione più corposa (pensiamo alla relazione omosessuale con P., al rapporto “lavorativo” con L., al ritorno della figura di Jerome), sebbene Von Trier continui a seguire i suoi schemi rigorosi e nitidi, intessendo e completando con geometrica perfezione un disegno raffinato e complesso.

Per forza di cose le atmosfere si fanno più cupe, tutto si tinge di nero, e il (solito, ormai noto) nichilismo del regista si mostra in tutta la sua portata; non alla maniera di Melancholia – vale a dire attraverso una totalizzante, luminosa catastrofe – ma piuttosto in sordina, in modo sconcertante e quanto mai grottesco, con un finale irridente, amaro ed emblematico. Finale che ribalta in un certo senso la figura del composto, pacato ascoltatore Seligman (del quale in questo secondo capitolo viene svelato molto di più) per farne, in maniera programmatica e calcolata, beffarda e quasi derisoria, la cartina al tornasole di uno dei punti cardine dell’intera poetica di Von Trier, che coincide con quella visione delle cose secondo cui in un universo necessariamente dominato dal cinismo la fiducia nel prossimo non è ammessa, come chiaramente dimostrano le “parabole” di certi suoi personaggi femminili quasi sacrificali: pensiamo alla Bess de Le onde del destino, alla Grace di Dogville, ma soprattutto alla Selma di Dancer in the Dark. Tuttavia Joe, è chiaro fin dal principio, non è una di loro: non possiede quell’innocenza e quel candore che sono insieme la forza e la condanna di queste indimenticabili figure femminili. Sarà proprio il suo lato oscuro, la tenebra che si porta dentro e di cui è in parte vittima, alla fine, a permettergli di salvarsi riaffermando la propria totale indipendenza e la propria inalienabile libertà.  Del resto non c’è spazio in questo universo annichilito e avvilente, congelato e svuotato, per le logiche dicotomiche e per le opposizioni binarie, come il regista afferma anzitutto mutando e invertendo a piacimento i ruoli di vittima e carnefice – anche sotto l’aspetto specifico del sadomasochismo – che di volta in volta assume la protagonista stessa.

In questo panorama desolante Joe si fa strada opponendo violenza a violenza. Se con ciò non trova riscatto (cosa del resto difficilmente immaginabile e forse impossibile all’interno della visione di Von Trier) tuttavia pone in atto in maniera perentoria e quasi lapidaria una definitiva e inappellabile autoaffermazione del proprio io, che trova il suo punto di partenza anzitutto nella lucida consapevolezza che la protagonista ha di se stessa e della propria interiorità. In questo senso, la volontà di Joe di raccontarsi a Seligman, sviscerando le proprie esperienze più intime sdraiata su un letto come in una seduta di psicoanalisi, non appare una scelta narrativa arbitraria e contingente, ma – al contrario – una necessità imprescindibile che ha un valore non formale ma sostanziale.

Se Nymphomaniac non possiede la spontaneità perturbante di Idioti, l’eleganza levigata di Dogville, la poesia sofferta di Melancholia o l’intensità visionaria e abissale di Antichrist, si rivela tuttavia un tassello importante nella filmografia del regista, per la pregnanza del discorso che pone in atto e l’equilibrio dei molteplici elementi (formali e contenutistici) che lo compongono. Come sempre in Von Trier, ogni cosa è calibrata e controllata con attenzione quasi maniacale, a cominciare dalle eccellenti prove attoriali (non va dimenticato il toccante, esacerbato monologo di Uma Thurman nel Volume 1). La rappresentazione (raffreddata, cruda) della sessualità non è qui fine ma mezzo – a conti fatti – per ribadire e riconfermare la visione disincantata e nichilista di Von Trier, che agisce stavolta insediando un fatale principio mortifero nel cuore di ciò che rappresenta, per eccellenza, l’impulso vitale dell’essere umano: l’eros.

Trama

Prosegue il racconto di Joe a Seligman: la donna continua a descrivere al suo interlocutore le proprie esperienze sentimentali e soprattutto sessuali. Le vicende narrate saranno stavolta ancora più cupe e tormentose di quelle messe in scena nella prima parte del film.

La recensione di Nymphomaniac – volume 1


di Arianna Pagliara
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