Non c’è nessuna dark side (Atto I)

Non c'è nessuna dark side è un gesto filmico lo-fi, provvisorio, fuori sincrono, che ha tutta l’introversa vitalità del malinconico.

non c'è nessuna dark side recensione
Non c’è nessuna dark side è un gesto filmico lo-fi, provvisorio, fuori sincrono, che ha tutta l’introversa vitalità del malinconico, l’energia del giovane, la consapevolezza del critico. Esordio come regista del critico e “pensatore di cinema” Erik Negro, è stato presentato alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro nella sezione Satellite.

Illuminare il caos dell’esistenza

Al di là dell’impressione di autoreferenzialità, che a un occhio superficiale può risultare fastidiosa, questo atto primo di Non c’è nessuna dark side è un’opera-monstre che contiene in sé chiavi di lettura coerenti. Le oltre tre ore e mezza, montate a partire da circa quattrocento ore di girato, vanno a comporre un film dalla struttura molto libera, fatto di materiali eterogenei. Quelli originali sono il risultato di riprese effettuate utilizzando 16mm, super 8, videocamere hi8 e minidv, una fotocamera full frame hd e ben sette cellulari. A conferire ulteriore scarto, frizione tra le immagini, l’inserimento di lunghi estratti da film di registi come il Godard del Disprezzo e soprattutto delle Histoire(s) du cinéma, ma anche Sokurov, Herzog, Lang, Dwoskin, Brakhage, Sharits, Anne Charlotte Robertson. Scene con Stanlio & Ollio, Ingrid Bergman. Spezzoni di trasmissioni televisive: Blob, Ghezzi a Fuori orario, gare sportive, serie d’animazione come i Simpsons, Pingu, la Pimpa, Shaun the Sheep. Schermo nero e didascalie con citazioni di Robert Hunter, Proust, Pessoa, Kerouac, Whitman, Thomas.

Una sorta di “blob”, dunque, che proprio come il programma di Raitre mescola tv, cinema e girato originale. Ma non c’è nessun intento satirico nel film di Erik Negro. Prevale, infatti, un tono lirico e diaristico, che spesso sfocia nella riflessione metalinguistica sul cinema e sul film stesso, sulla difficoltà a terminarne il montaggio. Le prime riprese risalgono al 2007, quando Negro era ancora diciassettenne: nei dodici anni trascorsi, si compie il rito di passaggio all’età adulta, per Erik così come per gli amici che partecipano al film, raccontando le loro vite, elargendo consigli e riflessioni sul progetto eternamente in fieri, in qualche caso anche fungendo da operatori.
La volontà di racchiudere una fetta di esistenza di durata ultradecennale in un lungometraggio di poche ore, la frenesia dei tanti viaggi e spostamenti in giro per i festival del cinema, la percezione del tempo che scorre rapido: tutto confluisce in una continua accelerazione dei fotogrammi, come se fosse possibile riprodurre il ricordo della propria vita soltanto in time-lapse. In contrasto con ciò, lunghe conversazioni, interventi in voice over, amiche che leggono testi di Godard o Stephen King come se fossimo in un film di Straub & Huillet, sfidando le convenzioni di ritmo e montaggio, giocando con il tempo cinematografico, dilatandolo senza il timore di incorrere nella prolissità, di cui un bilancio esistenziale audiovisivo così ambizioso e sentito come questo non può essere accusato affatto.
Il film inizialmente trae ispirazione dalle canzoni dei Pink Floyd, a cui allude l’espressione “dark side” nel titolo: la faccia nascosta della luna di cui cantava la band britannica, in uno dei suoi album più apprezzati, è anche il lato oscuro dell’essere umano, quell’inconscio che domina le nostre azioni. Uno dei motivi che rende estremamente affascinante il film di Negro è proprio l’illusione che si tratti di un cinema dell’inconscio, che si fa da sé, intuitivamente e spontaneamente, trasgredendo le regole della linearità e della narrazione, dando voce ai mostri interiori del suo autore. Un battito cardiaco, un respiro.

La straordinaria soundtrack, che oltre ai Pink Floyd comprende, tra gli altri, brani di Tortoise, Shellac, Bob Dylan, Leonard Cohen, Jimi Hendrix, Francesco Guccini, Fabrizio De André, C.S.I., Soft Machine, Robert Wyatt, Coldplay, Arcade Fire, The National, R.E.M., fino alla zappiana Watermelon in Easter Hay sui titoli di coda, non dà mai l’idea di fare da stampella a immagini deboli, come accade troppo spesso invece in molte produzioni mainstream, ma scandisce il ritmo del film, come un tappeto sonoro, a volte in primo piano, a volte in secondo piano, sempre necessario.
Quale miglior mezzo per generare nello spettatore quell’emozione di cui il cinema, non solo quello di poesia, non può fare a meno? Negro, evidentemente, non ha alcuna intenzione di spaventare gli spettatori, né di annoiarli. Il suo film, per chi lo guarda, nei momenti più efficaci di amplesso appassionato tra immagini e musica (si pensi a Dark Star dei Grateful Dead giustapposta alle inquadrature degli emisferi lunari), è fonte di puro piacere. E sembra davvero che riesca a “illuminare tutto ciò che si posa sotto i nostri occhi”. Film sulla luce, sull’attesa di un’illuminazione che dia un senso allo spaesamento della giovinezza, sull’identità che muta con gli anni. Sguardo verso il cielo che non ha paura né del sole, né dell’acqua, né della neve sui monti, né del vento, e si perde nel paesaggio deserto, in una sinfonia esplosiva di linee e colori, per poi tornare a occuparsi delle umane angustie, dei compagni che parlano di amore, amicizia, memoria e solitudine, suonano fumano scherzano bevono ruttano, sperando di fuggire da Acqui Terme. Domandarsi: “Fare un film oggi cosa vuol dire?”, quando il sacro e l’invisibile sembrano ormai oggetti lontani d’indagine per il cinema. Rispondere con un gesto filmico lo-fi, provvisorio, fuori sincrono, che ha tutta l’introversa vitalità del malinconico, l’energia del giovane, la consapevolezza del critico.


di Francesco Grieco
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