Noi credevamo

Strano popolo quello italiano. Senza memoria, senza attenzione per la propria storia, senza curiosità per il proprio passato. Si tratta di un qualunquismo generalizzato che ormai ha completamente attecchito nelle giovani generazioni (ma non solo), perse nell’idea perversa del successo, della plastificazione esistenziale.
Eppure, la nascita dello Stato italiano, e degli italiani come popolo, è stata caratterizzata dal sacrificio di persone che per questa “stravagante” idea dell’unità del paese, nel segno dell’uguaglianza sociale ed economica, della libertà di espressione, del rispetto dei diritti umani, della fratellanza, hanno versato il proprio sangue, dato la propria vita.
Certo, questi ideali nobili sono stati subito traditi, fin dal primo governo italiano, sotto la guida di Francesco Crispi, un primo ministro che diede all’Italia nascente un’impostazione non proprio progressista e bassamente colonialista.
È proprio questa vicenda complessa e dolorosa che prova a raccontare Mario Martone, nel suo monumentale film Noi credevamo.
Duecentoquattro minuti (durata più televisiva che cinematografica) che regalano allo spettatore un affresco di incredibile sobrietà e precisione su quelli che sono stati i moti rivoluzionari che hanno portato nel 1861 alla proclamazione dello Stato italiano e poi nel 1871 all’unità definitiva, con Roma capitale.

Rigore formale, chiarezza narrativa, recitazione sempre misurata, mancanza assoluta di compiacimenti estetici. Il racconto è incentrato alla massima lucidità. Martone indaga, ripercorre, ricostruisce, fa riemergere la storia di uomini che nel più completo anonimato hanno inseguito, voluto e messo in atto un ideale di libertà e di indipendenza. La regia dell’autore napoletano è perfettamente calibrata al tono severo della vicenda, non soverchia mai le questioni storiche e politiche. Martone ha dunque realizzato una grande opera di servizio (pubblico), ha ricordato agli italiani di oggi come mai esistono, e come mai esiste ancora questo paese. E l’ha fatto in modo alto, cioè senza l’uso della retorica nazionalistica (fattore che avrebbe banalizzato tutto).
L’ha fatto anche nel segno di un sentimento espressivo, quello della ricerca della verità, della volontà di parlare ai ragazzi di oggi di altri ragazzi (di cento cinquanta anni fa) che non inseguivano il potere personale e che credevano solo in un mondo migliore. A loro modo erano visionari, forse folli, uomini e donne convinti che al di fuori della logica della democrazia repubblicana non si potesse vivere nel rispetto del prossimo.
Poi sappiamo come è andata: la monarchia, l’atrocità e la vergogna del regime fascista, e poi ancora, dopo la ricostruzione e il boom economico, il terrorismo e la strategia della tensione, la mafia, la P2, la corruzione, l’imbarbarimento della politica e dell’economia.
Quando il personaggio centrale del film di Martone (un intenso Luigi Lo Cascio), dopo decenni fatti di lotte, clandestinità, battaglie, prigionia, e fede nella democrazia arriva per la prima volta al neonato Parlamento italiano per conferire con un politico, si renderà conto che ciò in cui lui aveva creduto e per cui aveva combattuto e vinto già non esiste più.
“Noi credevamo” afferma la sua voce fuori campo, ma i suoi occhi sono persi nel vuoto, incapaci di riconoscere l’Italia che aveva sognato e amato. Se vedesse le condizioni in cui è ridotta l’Italia dei nostri giorni, sarebbe anche peggio. Sarebbe devastante.

Per concessione della testata giornalistica Cultframe-Arti Visive


di Maurizio G. De Bonis
Condividi