No man’s land

“Terra di nessuno”, quella che separa due trincee nemiche, l’una dell’esercito bosniaco e l’altra dell’esercito serbo; “terra senza uomini” o “terra di non-uomini” che inghiotte ed accomuna, per un momento, i destini di tre soldati: Zena, Chiki e Nino. Attorno a questi tre animali in gabbia, feriti, immobili, affamati di reciproca vendetta, nemici come possono esserlo i bambini che continuano a scambiarsi calci sotto il banco senza più ricordare chi è stato il primo a cominciare, si muove “il circo” della guerra con i suoi carrozzoni.
Tanovic scherza con il conflitto balcanico con la leggerezza e la naturalezza di chi gli può dare del “tu”; l’ironia non trascende mai la misura del buon gusto e si trattiene dal cinismo o dall’umorismo nero. La tragedia sembra tanto più vera, tanto più attuale, tanto più ineluttabile, quanto più se ne coglie la surrealtà sarcastica: il soldato in trincea che si sconvolge leggendo degli eccidi in africa, il litigio infantile tra il serbo e il bosniaco su chi abbia dato inizio alle ostilità, la situazione demenziale del soldato costretto all’immobilità a causa di una mina pronta ad esplodere al minimo movimento, l’assurdità burocratica degli organismi internazionali che invece di risolvere i problemi li ingrandiscono.
Quella mostrata da Tanovic è proprio la guerra più invisibile, quella che comincia quando il collegamento dell’inviato speciale finisce, quella in cui non c’è posto per l’uomo. No man’s land, non ci sono persone in questa “terra di nessuno”, nessuno si salva da un giudizio morale che non viene enunciato apertamente ma solo sussurrato; i contingenti delle Nazioni Unite sono al comando di un generale che sembra appena uscito dal Dottor Stranamore di Kubrick, tutto concentrato sulle cosce della sua segretaria e sull’obbligo di salvare la faccia davanti ai giornalisti; i giornalisti stessi sono iene la cui pietà si spegne allo spegnersi della luce rossa della telecamera. Ma non c’è moralismo in queste prese di posizione, in questi ritratti un po’ caricaturali ma incredibilmente credibili; è l’assoluta assurdità del contesto a rendere assurdo tutto ciò che vi gravita intorno: non ci possono essere ragionevolezza, pietà, coraggio, giustizia laddove a queste qualità si è abdicato da tempo.
No man’s land è un film necessario, attualissimo, perfetto nel non parteggiare per nessuno e nel condannare senza parole; un film straordinariamente acuto ed affilato che non cerca tanto di dare risposte, quanto di porre domande, con lo sguardo di chi ha impressa nella mente la regola d’oro: “homo sum; nihil humanum a me alienum puto” (“sono un uomo; niente di ciò che è umano mi può essere estraneo”).
Sull’ultima sequenza del soldato immobile, abbandonato da tutti in attesa che la mina lo faccia esplodere, il punto di vista è quello di qualcuno che assiste dall’alto alle miserie umane. Si impone una scelta: chiudere gli occhi e dimenticare; oppure tenerli aperti per cominciare ad agire…
Note critiche su No Man’s Land
di Maurizio Fantoni Minnella
Bosnia: in un lembo di terra di nessuno si consuma l’incontro-scontro fra un soldato serbo e uno più giovane bosniaco, con l’immancabile intromissione di una petulante giornalista inglese e degli immancabili caschi blu dell’Onu, in realtà giunti sul posto per liberare un altro soldato serbo finito sopra una bomba “saltellante” che può esplodere ad un suo minimo sussulto.
Se partiamo da un primo indizio simbolico (il dispositivo deflagrante che stabilisce una sorta di corpo a corpo con la vittima evoca la perennità del terrore che i vivi devono perennemente confrontarsi) capiamo subito che tutto il film di Radovan Tadic (autore di Sarajevo-1993) possiede una sostanza squisitamente simbolica ed è costruito su di una sola unità spazio-temporale, la no man’s land appunto, dove il tempo “storico” della guerra, e la sua prassi, viene annullato; al suo posto assistiamo invece al cosiddetto teatro della sopravvivenza e della crudeltà (dove sopravvive solo il senso nazionalistico di appartenenza) la cui rappresentazione filmica non può che essere di natura metaforica.
Tuttavia nello spazio concentrazionario della metafora storica, che ci rimanda alla trilogia ungherese di Miklos Jancso, il regista slavo introduce con evidente squilibrio linguistico-formale piccoli quadri narrativi, che introducono la figura di una giornalista inglese, e spezzoni da repertorio sulla guerra che appunto contribuiscono a spezzare lo stesso ritmo narrativo.
Inoltre egli sembra aver ricavato il plot del racconto non da un’idea originale, ma da un ben noto film di un regista slavo esule in Inghilterra, Jasmin Dizdar, Beautiful people (1999) che si apre su una Londra cosmopolita dove due uomini, un serbo e un bosniaco, si insultano, si rincorrono, si picchiano selvaggiamente finchè entrambi finiranno nella stessa camera d’ospedale.
Dalla “terra di nessuno” alla “terra di tutti” il passaggio in fondo è breve e nel finale pessimistico di Tavic l’accusa non è solo rivolta verso l’orrore dei nazionalismi (sempre pronti a ricomparire sulla scena politica mondiale), ma anche l’ipocrisia dell’internazionalismo neutrale.
di Ludovico Bonora