Niente da nascondere

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nientenascondere-filmNiente da nascondere di Michael Haneke è una pellicola disturbante, che irrita e spiazza, proprio come la Verità rimossa, che irrompe, apparentemente non richiesta, nella vita del protagonista, un giornalista culturale colto ma gelido, convincentemente interpretato da Daniel Auteuil.

Haneke costruisce il film come un vero e proprio rompicapo senza soluzione: se la sua opera precedente, La pianista, era, per contenuto e forma, incandescente, qui si è in presenza di ambienti, atmosfere, personaggi chiusi, ambigui e raggelati.
Georges (Auteuil), tipico intellettuale parigino, è l’incarnazione della razionalità sterile, dell’Io tronfio incapace di misurarsi con il lato oscuro e di assumersi le proprie responsabilità.
Come già accaduto nell’infanzia, Georges, adulto, continua ad accusare Majid, un algerino suo coetaneo e figlio dei domestici, di essere la causa della sua rovina: se, da bambino, si era inventato che Majid aveva tagliato la testa ad un gallo per spaventarlo, ora, Georges spinge, di fatto, l’altro a suicidarsi allo stesso modo, davanti ai suoi occhi.

In definitiva, Georges si comporta come alcuni personaggi paranoici di altrettante opere memorabili e stranianti: come non pensare, di fronte alla sua ossessione, al delirio di persecuzione dell’architetto Kracklite nel film di Greenaway (Il ventre dell’architetto, 1987), o all’Io diviso del protagonista del più recente Spider di Cronenberg?
Insomma, siamo in un ambito psicopatologico e Georges costituisce un vero e proprio caso clinico, come a suo tempo, Erika, la sfortunata pianista magistralmente interpretata da Isabelle Huppert: in entrambe le pellicole, la realtà si ripete senza requie, perché il passato non è stato accettato ed elaborato. Ancora una volta, dunque, Haneke realizza un film degno di uno studio psicoanalitico vero e proprio, ma non tralascia, nel contempo, di fare un discorso ideologico e di classe (vd. i rapporti tra Francia e Algeria, negli anni ’60). Il tutto, condito con una spietatezza e una perfidia compiaciuta che ricordano Chabrol.


di Mariella Cruciani
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