Nezouh – Il buco nel cielo

Emanuele Di Nicola recensisce il film di Soudade Kaadan.

Nezouh

Una metafora semplice, piana e leggibile, era al centro di The Day I Lost My Shadow, il film precedente della regista siriana Soudade Kaadan: le persone coinvolte nella guerra civile perdono la loro ombra. Era già tutto nel titolo, nel senso che la situazione descritta costituiva il fulcro del racconto, attraverso una trovata efficace e “popolare”, perché pensata per tutti e comprensibile a tutti. La guerra cancella il nostro riflesso, la parte di sé proiettata al di fuori, oscura l’anima.

Il termine nezouh invece significa “spostamento di acque, persone e cose”, come apprendiamo dalla didascalia iniziale di Nezouh – Il buco nel cielo, il nuovo film di Kaadan, dal 12 gennaio nelle sale. Lo distribuisce Officine Ubu, che continua nella politica peculiare di frugare nelle zone dimenticate del mondo, negli spazi obliqui, per portarli alla luce. Trovando il giusto compromesso tra il cosiddetto “film d’autore” e la proposta commerciale che non sia ostica per il pubblico generalista, che inviti al piacere della visione. Allora, dopo il tibetano Lunana – Il villaggio alla fine del mondo e il boliviano Utama – Le terre dimenticate, non sorprende la scelta di puntare sul titolo siriano, che precede la distribuzione di The Quiet Girl di Colm Bairéad, rappresentante all’Oscar per l’Irlanda come migliore film straniero.

Il buco nel cielo è quello che si forma nell’abitazione di una famiglia di Damasco. Ambientato proprio durante il conflitto, il film segue la parabola di un nucleo composta dal padre Mutaz, la moglie Hala e soprattutto la figlia Zeina di 14 anni. Gli adulti sono due grandi attori siriani, Samer al-Masry e Kinda Alloush. In partenza la situazione è già complessa, visto che sono costretti a sopravvivere senza corrente elettrica: non a caso si inizia col ballo del capofamiglia, in grado di accendere un generatore meccanico fatto in casa, ma è una gioia che dura poco. Questo è il male minore, naturalmente, perché una bomba colpisce il tetto dell’edificio e si apre una voragine, il buco appunto, che costringe la famiglia a vivere “all’aperto”, esposta al mondo esterno. Così, un giovane che vive nei dintorni entra in contatto con la coetanea Zeina e, calando una corda nell’apertura, offre alla ragazza il primo contatto con la libertà.

L’autrice compone una storia in equilibrio tra realismo e delicata surrealtà, che sarebbe fin troppo facile definire realismo magico. Del resto lo sfondo siriano è sempre presente, anzi fondante, nella sua crudezza, nella durezza costitutiva di un luogo sotto le bombe. Ma, e qui sta la forza della proposta, il film respinge il consueto neorealismo di guerra e indica un’altra strada: una crasi, un’unione di istanze, un sincretismo tra l’orribile realtà e le possibilità dell’immaginazione. I grandi film prodotti dai siriani resistenti, come Republic of Silence di Diana El Jeiroudi, trovano un controcampo più lieve e pop, seppur dolente e problematico.

Ecco che Soudade Kaadan manovra l’archetipo del buco, finestra sul mondo, fessura da cui si vede e si entra in contatto con l’altro, come già per The Hole – Il buco di Tsai Ming-liang, che provava a spaccare l’immensa solitudine nella società taiwanese di inizio millennio, e per Il buco di Michelangelo Frammartino, che invece scrutava nelle viscere della sua terra. Qui la metafora porta a differenti reazioni, nella polvere del teatro bellico, perché le donne della famiglia iniziano a guardare l’intorno (come sempre le donne vedono oltre), mentre il padre si rifiuta di lasciare la casa, non vuole uscire, non accetta lo status di rifugiato che rischia di segnarlo per la vita. Ma il buco è anche una presa di coscienza. Così i personaggi potranno infine seguire il nezouh del titolo originale, ovvero il proprio flusso, in marcia verso una condizione incerta ma che è comunque rottura della stasi, di una paralisi ormai insopportabile. Dedicato ai caduti in guerra, agli sfollati, ai dispersi in mare.


di Emanuele Di Nicola
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