Neruda
Biopic? Occorre intendersi. Larraín e il suo sceneggiatore Guillermo Calderon, circoscrivono il loro racconto ai quindici mesi (gennaio 1948-marzo 1949) in cui Pablo Neruda, senatore comunista, denuncia la politica repressiva del governo di Gabriel Gonzalez Videla, viene cacciato dal Parlamento, è raggiunto da un mandato d’arresto, entra in clandestinità e infine rocambolescamente fugge attraverso le Ande per raggiungere l’Argentina e poi Parigi. Lo insegue un prefetto di polizia, Oscar Peluchonneau, figlio di una prostituta e a caccia di una rivalsa sociale. Sono mesi importanti in cui il poeta scrive buona parte della sua raccolta più famosa, “Canto general”, radicalizza la sua scelta politica e diventa il simbolo (stalinista) dei partigiani della pace. Larraín forse non poteva scegliere un momento più illuminante. L’alternativa, come insegnano i sempre più numerosi film biografici, è la resa artistica tendente al basso, verso l’omologazione con il modello televisivo. Qui non ci sono né realismo né nozionismo, a dispetto del laconico titolo da voce enciclopedica. Informazioni su Neruda, sembra suggerire il regista, cercatele da un’altra parte.
Raccontare un poeta, volendo dare immagini al suo mondo, è rischioso. Un po’ come raccontare la musica o la pittura attraverso le parole. Larraín sembra influenzato dalla primitiva poetica di Neruda, quella surrealista. Non c’è quasi spazio, a dispetto di “Canto general” che qui prende forma con i suoi versi epici, per il poeta civile e politico. E nemmeno per quello lirico. L’atmosfera del film è onirica, fluida, astratta. Il regista gioca con i generici cinematografici: la commedia, il dramma, l’epica western, la detective story, il road movie e il film di denuncia.
L’opera è subdola e sublime come può esserlo la poesia. I movimenti della macchina da presa, ora leggeri, ora bruschi, tendono a replicare le emozioni dei personaggi. La prospettiva, seguendo Neruda e il suo antagonista, il segugio Peluchonneau, è asimmetrica. L’azione improbabile, spesso sopra le righe. L’ispettore creato da Larraín e Calderon, ma la cui invenzione gli autori attribuiscono a Neruda, è un personaggio che ha radici letterarie e cinematografiche, non realistiche. Vive luce riflessa, prigioniero della fascinazione per un poeta che semina beffardamente di libri il cammino della sua fuga in modo che il poliziotto ricordi sempre con chi ha a che fare. Non gli resta che riconoscere: “Sto andando a caccia di un’aquila, ma non so volare”. Il suo finale rifiuto ad uscire di scena, in cui cerca e ottiene la complicità del poeta, è coerente ed emozionante.
L’impervio connubio tra i fatti di cronaca e l’immaginazione della creazione artistica è la scommessa del regista. Finzione e realtà si mischiano sottraendo ogni punto di riferimento allo spettatore. Larraín punta all’astrazione. Ma l’equilibrio dei materiali non sempre si rivela saldo: la prima arte del film non ha l’onirismo della seconda. C’è più storia e meno allegoria. La caccia all’uomo fatica a diventare l’inseguirsi di due persone che si scoprono dipendenti una d’altra, anche se il poeta è il burattinaio, l’ispettore il suo burattino. La fusione in Neruda tra l’artista e il simbolo, tra l’uomo e il politico, intriga ma fatica a stabilizzarsi.
Naturalmente l’ambiziosa scommessa di Larraín e Calderon può essere vinta solo se il film rispecchia il suo titolo, se racconta, pur con tutti i limiti prima indicati, Neruda. Per rispondere ci soccorrono le note biografiche e, trattandosi di un poeta, le poesie. Non è facile districarsi. E’ corretto, ma un po’ semplicistico, sfogliare la sua autobiografia (di oltre 500 pagine nell’edizione italiana). Il titolo, “Confesso che ho vissuto”, però dice già molto: c’è tutta la bulimia dell’autore. Ma è un’auto biografia strana. “Queste memorie o ricordi sono intermittenti e a tratti si smarriscono perché così appunto è la vita”, avverte l’autore. “Le memorie del memorialista non sono le memorie del poeta”.
Neruda, l’artista come il personaggio cinematografico, ama il paradosso: è lirico, sensuale, edonista, ma anche militante politico. E’ avventuroso, elegante, scintillante e umile. Sempre borderline. Bene fa Larraín a proporcelo come un personaggio strabordante, eccessivo ma anche lieve, che ama divertirsi (il disturbo col clacson della quiete notturna del presidente) e che sceglie camuffamenti grotteschi (vestito da prete in un bordello sembra un personaggio di Bunuel, in una vetrina di fotografo sembra un ritratto in mostra). Sfida il potere con la retorica marxista, ma forse preferisce lo sghignazzo, il gioco beffardo, l’alcol, la frequentazione dei casini. Nella biografia il poeta difende il suo edonismo, rivendica i guadagni e il successo di fronte ai reazionari, ai moralisti e ai critici: “Capisco se la probabile felicità offende molti. Ma si dà il caso che io sia felice di dentro. Ho la coscienza tranquilla e l’intelligenza inquieta”. Ed è così che lo ritrae Larraín.
Trama
Cile, 1948: il senatore Pablo Neruda denuncia la sanguinaria repressione del dittatore Gonzalez Videla e viene estromesso dal Parlamento. Il prefetto Oscar Peluchonneau è incaricato di arrestare il poeta che entra in clandestinità e cerca di fuggire dal Paese attraversando a cavallo i passi andini.
di Giorgio Rinaldi