Nel mondo
Nel mondo è il nuovo lavoro di Danilo Monte, che conferma la necessità di utilizzare la videocamera come un'estensione naturale del corpo.

Nel mondo è il nuovo lavoro di Danilo Monte, che conferma la necessità da parte del regista di utilizzare la videocamera come un’estensione naturale del corpo, macchina umana dolorosa e ossessiva, in grado di guardare a sé e alla propria vita rendendosi al contempo veicolo di una riflessione universale sul tempo, sul divenire, e sulle stagioni della vita. Presentato in concorso al festival milanese Filmmaker.
Non è raro imbattersi in articoli e saggi che mettono sotto accusa in modo generico quel cinema che (si dice) non sa andare al di là del proprio ombelico o, assecondando un’altra struttura idiomatica, non è in grado di guardare oltre la punta del proprio naso. Ombelico, naso: nel porre come centrali parti specifiche del corpo umano le si connota di timbriche negative, quasi che la meccanica del corpo sottintendesse automatismi egoistici. Il regista (meglio, l’autore) deve essere incorporeo, invisibile come la macchina da presa, asettico bisturi a dissezionare una realtà che si vuole ontologicamente esterna, distante. Già post-umana, in qualche misura. Il cinema come meccanismo perfetto, o al limite da perfezionare. Macchina, organismo sistematizzato per giungere all’obiettivo prefissato. Ma il cinema può essere ombelico, naso e via discorrendo. Può e in taluni casi deve necessariamente esserlo.
Ne è un esempio piuttosto calzante, quasi paradigmatico, l’esperienza registica di Danilo Monte, che ebbe modo di essere notato sotto il profilo critico già all’epoca di Memorie – In viaggio verso Auschwitz, presentato cinque anni fa nella sezione documentaria del Torino Film Festival. All’interno di quel lavoro vi era già il sentore persistente dello spleen poetico poi ulteriormente deflagrato dapprima in Vita nova e ora con Nel mondo, presentato nei giorni scorsi al milanese Filmmaker Festival. L’idea del cinema come atto non solo intimo, ma legato a bisogni strettamente famigliari, quasi la videocamera fosse l’estensione diretta dello sguardo, l’evoluzione tecnologica dell’occhio, parafrasando un concetto caro ad Alberto Grifi. Per quanto Grifi non abbia mai assecondato voglie diaristiche (rifuggendole in modo dichiarato nel suo capolavoro, Anna), c’è qualcosa di profondamente legato alla sua esperienza rintracciabile nel soffice e asperrimo tessuto ordito da Monte. Torna qui ad esempio il concetto di camera come occhio registrante/ossessionante che è tra le basi del già citato Anna, prima che la dichiarazione d’amore dell’elettricista Vincenzo svolga la sua funzione depistante.
È sempre presente, la camera di Danilo Monte. Insegue i suoi affetti più cari, al contempo perseguitandoli, ma soprattutto è perennemente lì. Accesa là dove accade qualcosa. Riprende tutto, perché tutto nel concetto di cinema di Monte ha dignità di esistere come narrazione. Non c’è nessun regista italiano, in questi anni, che abbia lavorato con maggior coraggio su di sé, sul proprio contesto, sulla propria vita quotidiana, intima, personale. Non solo come soggetto da narrare, ma come oggetto pulsante, respirante, vivo. Nel mondo registra nascita e morte, in qualche modo rientrando in quella genia di opere che riflettono sull’andare inevitabile delle stagioni, sul loro susseguirsi con una precisione organica quasi spaventosa nella sua precisione. Non è poi così peregrino accostare – su un piano prettamente superficiale, come si cercherà di analizzare poco più avanti – Nel mondo a opere come La terra di Aleksandr Dovženko o Farrebique (e ovviamente Biquefarre) di Georges Rouquier. Ma se in entrambi i casi il racconto dell’andirivieni delle stagioni, con il suo portato di nuova vita in arrivo e vecchia pronta alla dipartita assumeva i contorni di una riflessione da un lato strettamente antropologico e dall’altro inevitabilmente collettivo – e non è un caso che si parli di due realtà contadine, come sarà in un altro titolo impossibile da non citare in un contesto simile, vale a dire Il pianeta azzurro di Franco Piavoli – Monte radicalizza il discorso. Esclude la collettività dall’occhio della camera, quella camera perennemente accesa perché non può essere spenta.
In questo passaggio, con l’umano che può essere esperito solo attraverso se stessi o le persone che vivono più vicine a noi, Nel mondo cerca la propria dimensione eterna, la propria goccia di immortalità. Così fragile, così tenera, da essere la manina di un neonato come un fiocco di neve che cade. Non più l’illusione di raggelare l’attimo, ma la consapevolezza di doverlo vivere come possibilità dello sguardo, gesto banale che trova la sua collocazione nell’empireo. Non c’è mai edulcorazione nello sguardo di Monte, non c’è mai fuga verso la placidità: è uno sguardo in perenne conflitto, mai autoassolutorio, così esasperato da poter mettere in difficoltà lo spettatore, non più in grado di sostenerne l’urto. Un cinema che non ha timore di specchiarsi – non solo metaforicamente – perché non cerca l’idolatria di sé, ma un proprio senso profondo, il grimaldello per accedere alla serratura più complessa, quella in cui è sempre chiuso il nostro io. Per sicurezza. Monte elude quella sicurezza e si lancia, sapendo che registrare e vivere sono due istanti diversi, ma che possono essere complementari. Atti di dolore per trovarsi, ritrovare i propri amori, e assistere a quella stagione che passa, e cambia, e muta colori e ritmi e odori. Monte sembra aver scoperto il punto in cui vita e cinema possono finalmente coincidere senza sovrapposizioni ed egemonie dello sguardo. Il suo nuovo film è un’epifania.
di Raffaele Meale