Mommy

Su CineCriticaWeb la recensione di Mommy, il film di Xavier Dolan, presentato in concorso al 67. Festival di Cannes.

Mommy

Lui detesta sentirselo dire. E lo ha ribadito in non poche interviste. Quando sente associare l’aggettivo speciale al proprio nome o gli vengono affibbiate definizioni che alludono in qualche modo a una condizione eccezionale rispetto a quella anagrafica, si imbizzarrisce subito e reagisce a gamba tesa spacciando di sé un’immagine di comodo che parla di un giovanotto perfettamente in linea coi gusti e gli orientamenti estetici dei propri coetanei e con una venerazione per certo cinema commerciale (con una passione particolare per Titanic) che ha ben poco a che vedere con la sofisticata e in certo qual modo difficile filmografia finora sfornata.

Eppure Xavier Dolan un po’ speciale lo è davvero. Canadese, venticinque anni, a soli diciannove si prese il lusso di essere insignito della Camera d’Or a Cannes per il suo spiazzante esordio con J’ai tué ma mère, iniziando da quel momento una carriera a dire poco folgorante che lo ha portato a sfornare altri quattro titoli nel breve raggio di meno di un lustro. Se poi si aggiunge che in quasi tutti questi cinque lungometraggi non si è soltanto limitato a scriverli, dirigerli e produrli, ma li ha anche montati, interpretati nel ruolo del protagonista (tre su cinque) arrivando addirittura a disegnarne i costumi, è piuttosto difficile non pensare a lui come a un giovane favoloso e superdotato capace — come appunto successo quest’anno a Cannes — di arrivare a condividere ex-aequo con un mostro sacro del calibro di Jean-Luc Godard il premio della giuria.

E speciali, non a caso, sono anche i personaggi centrali di quasi tutti i film scritti e diretti da Dolan. A partire dall”Hubert di J’ai tué ma mère, il sorprendente film d’esordio, con al centro un adolescente difficile e introverso legato alla madre da un devastante rapporto di amore/odio. Per passare per il Nicolas di Les amours imaginaires, imbrigliato in un ménage a trois che nessuno dei componenti del triangolo ha il coraggio di trasformare dal vagheggiamento di fantasia alla sua conversione in atto. E ancora più speciali sono il Laurence del fluviale Laurence Anyways, uomo finito per sbaglio in un corpo di donna e deciso a cambiare sesso proprio nel giorno del suo trentacinquesimo compleanno, o il tormentatissimo Steve di Mommy, adolescente quanto mai problematico affetto da eccessi di attivismo e deficit di attenzione che scarica sull’incolpevole madre il proprio prematuro disagio esistenziale.

Adorato in patria (dove Mommy è stato campione d’incassi) e adesso consacrato anche in Francia (dove invece i severissimi talibani dei «Cahiers du cinéma» gli hanno dedicato addirittura una copertina con uno speciale di quindici pagine e un editoriale osannante nel quale il giovane autore viene paragonato addirittura a Truffaut), in Italia il cinema di Dolan è di fatto sconosciuto al grande pubblico, essendo finora rimasto confinato alla ristretta cerchia degli addetti ai lavori o dei frequentatori dei maggiori festival del pianeta. Con l’arrivo nelle sale di Mommy si spera quindi che la lacuna venga colmata e che magari l’approdo di questo suo ultimo lavoro premiato a Cannes a maggio favorisca il recupero distributivo anche del resto della produzione di questo enfant prodige del cinema d’oltreoceano.

Al centro del film c’è una coppia destinata a scoppiare che si ricostituisce dopo una penosa parentesi di forzata separazione esistenziale: lei è Diane, vedova da tre anni e neo disoccupata con al suo attivo solo una bella presenza e ben poco da offrire a un mondo del lavoro in cui si fatica a trovare un posto anche con due lauree e un master. Lui invece è Steve, il figlio sedicenne che, dopo la morte del padre, ha iniziato a dare forti segni di squilibrî comportamentali. Al punto da essere avviato a istituto specializzato dove, secondo una recente e discussissima legge canadese, i genitori in difficoltà possono richiedere vengano ricoverati i figli fuori controllo.

Ma Steve è fin troppo fuori controllo. Dopo aver dato fuoco alla mensa e aver ustionato per il 75% del corpo un compagno di degenza, viene rispedito al mittente. Il che significa che toccherà alla povera Diane, già gravemente in ambasce per le ristrettezze economiche in cui il recente licenziamento l’ha fatta precipitare, cercare di tenere a bada quel figlio eccessivo sia nell’amore monomaniaco che prova per lei che purtroppo per le rabbiose manifestazione di disadattamento esistenziale cui dà costantemente vita non appena il  senso di inadeguatezza si impossessa della sua mente instabile.

Sospeso tra continue risse verbali che spesso terminano in violentissimi incontri ravvicinati di un tipo ancora da definire e improvvise accensioni di affetto che seguono i round sul ring della più sfrenata emotività, il rapporto madre-figlio sembra incanalato verso esiti prevedibilmente tragici. Se non fosse per la presenza di Kyla, gentile dirimpettaia che ha lasciato l’insegnamento dopo aver sviluppato una strana balbuzie come reazione alle infelicità coniugali, la quale entra per puro caso a fare da terzo incomodo nel mortifero duetto di famiglia.

Ma anche la sua presenza è destinata a essere un conforto soltanto passeggero: non ostante Steve sembri trarre positivi stimoli verso una possibile guarigione dalla vicinanza della dolce vicina (che mette a frutto anni di esperienza professionale nella speranza che a fine anno il ragazzo passi gli esami da privatista), l’ondivaga umoralità della sua psiche fratturata nel profondo diventano un fardello insostenibile per la povera Diane, decisa a compiere nel finale un passo traumatico destinato ad avere conseguenze atroci.

Mommy conferma tutto il bene che da anni si dice di Dolan (a prescindere dall’inevitabile shock che si prova a leggere la data di nascita di questo animale da cinema incapsulato nel corpo di un post adolescente). Ovvero un autore capace di raccontare il male di vivere che affligge l’umanità dei nostri giorni trasformando in paradigmi universali fragili vicende che spesso sono il frutto di rimasticazioni in immagini di esperienze autobiografiche vissute sulla propria pelle.

Questo suo quinto film ne segna di fatto non solo la consacrazione europea dopo i numerosi successi in patria e nel mondo francofono, ma soprattutto una sorprendente maturazione a livello cinematografico che passa attraverso una rivisitazione del proprio film d’esordio. Perché Mommy è infatti anche questo: ovvero una specie di reboot consapevole di J’ai tué ma mère, di cui riproduce il confronto-scontro tra madre e figlio all’insegna di un penoso odi et amo che ne congiunge le due nature sempre sopra le righe, confermando poi il calco autoreferenziale con la richiamata in servizio delle due attrici già protagoniste di quel bellissimo film d’esordio. E cioè le magnifiche Anne Dorval e Suzanne Clément, che spiace soltanto non poter ammirare nell’originale francese, visto che nella copia italiana in sala vengono penalizzate da un doppiaggio non sempre felicissimo.

Film di contrasti aspri e violenti che prendono alla sprovvista lo spettatore senza mai lasciargli un attimo di tregua, come tutte le altre pellicole di Dolan anche Mommy presenta scelte estetiche che confermano la personalità di un autore capace di piegare la macchina da presa e il mezzo stesso della sua espressione visuale in strumento narrativo attivo. Il film è infatti girato per il 95% delle sue due ore e venti nell’inusuale formato 1:1: ovvero una sorta di quadrato che sulle prime potrà spiazzare il pubblico, ma che a una più attenta analisi si rivela il frutto di un precisa scelta di campo volta ad allineare il dramma narrato con il medium visivo che lo illustra per immagini.

C’è chi ha subito pensato che questa scelta del formato quadrato possa essere figlia dell’allineamento del giovanissimo Dolan alle mode del momento. E cioè il gusto per il selfie da scagliare nell’etere della rete come testimonianza del proprio essere parte attiva del vacuo flusso visivo che fa da colonna sonora al nostro vivere di oggi. Come se il regista e sceneggiatore canadese volesse dimostrare che anche la più cupa delle tragedie può essere raccontata con la stessa irresponsabile levità con cui gli spiriti leggeri del nostro tempo documentano cumuli di vuote esistenze in un festival di futilità.

Ma quando in due sole occasioni la pellicola torna ad allargarsi (ovvero in un momento di spensieratezza a tre e là dove Diane vive in un film di pura fantasia il futuro radioso del proprio figlio recuperato che, con le fattezze di Dolan stesso, ridiventa normale, si laurea, si sposa e le regala un nipotino), si ha immediata la controprova di quanto fallace sia l’interpretazione. Raccontando il male di vivere sintetizzato in una storia di dolore di questo tribolato avvio di terzo millennio, Dolan sceglie di restringere simbolicamente l’obiettivo, lasciando spazio solo a una figura per volta. Come se l’immagine stessa confermasse la difficoltà del vivere sociale e il solipsismo tragico cui ciascuno di noi è inevitabilmente condannato.

Trama

Vedova da tre anni e neodisoccupata madre single, la bella Diane deve all’improvviso tornare a occuparsi del figlio Steve, un quindicenne affetto da una serie di disturbi comportamentali che lo hanno reso incompatibile anche con la struttura ospedaliera di recupero nella quale era ricoverato. Tra risse violentissime e continue attestazioni di affetto reciproco, la coppia sopravvive quanto può fino al finale tragico solo annunziato e non mostrato.


di Redazione
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