Mine vaganti

Le mine vaganti sono pericoli in potenza, ordigni di emozioni che, se esplodessero, potrebbero polverizzare certezze, equilibri, intere vite. Nella famiglia Cantone sembrano disseminate un po’ ovunque, dalla nonna legata ad un passato di mai sopito dolore, passando per la zia che nell’alcool affoga il rimpianto di una libertà negata, fino ad arrivare ai due fratelli che celano, sotto la parvenza della “normalità”, il loro segreto.
Ozpetek, dopo il drammaticamente dimenticabile Un giorno perfetto, si cimenta con la commedia, alleggerendo il tono e, con mano (fin troppo) lieve racconta la storia di una famiglia che mette in scena, quotidianamente, un gioco delle parti fondato sull’apparenza per nascondere quelle verità che risulterebbero socialmente scomode.
Molti dei Cantone sono degli outsider costretti a vivere negli angusti limiti che impone loro la tradizione e il buon senso di una meridionalità che, qui, attinge dalla banalità del luogo comune. Intorno a Tommaso – uno Scamarcio visibilmente spaesato nel ruolo – gravitano una serie di personaggi che, quando nel migliore dei casi risultano mediamente simpatici (la zia Luciana),  in altri scivolano nella macchietta più desolante (il cognato napoletano). L’impossibilità di essere felici, che il regista vorrebbe tingere dei toni forti dell’ironia o della sfumatura amara del grottesco, risulta invece una mera “condizione” di partenza dalla quale far scaturire una sequela di ovvietà che, dalla battuta più pruriginosa allo struggimento di un amore non corrisposto, compongono un quadro assolutamente prevedibile.

Restando alla superficie del dramma Ozpetek, ancora una volta, ammicca allo spettatore, lo blandisce con il fascino dei luoghi e dei volti, lo stuzzica con le voci suadenti di Patty Pravo e Nina Zilli e gli regala una storia che sembra riflettersi fiera nello specchio dell’artificio oltre la cui lussuosa cornice non c’è traccia di pathos o di verità.
Il regista turco confeziona ad arte, e lo sa fare, la superficialità della narrazione  in un involucro di bellezza che, qui, prende in prestito da una Lecce magnifica fino allo stordimento ma che non basta a camuffare la banalità di certi siparietti, né la retorica di certi gesti… E’  appannaggio di pochi cogliere il riso nella lacrima o scuotere nel colore il nero profondo. Ozpetek non è Almodovar e tra il dolore e il nulla, preferisce non scegliere – come scriveva Faulkner – il primo ma optare per il secondo al quale non nega nemmeno il rassicurante finale.

Per concessione della testata giornalistica Punto di Svista – Arti Visive in Italia


di Eleonora Saracino
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