Mia madre

Da sempre fedele a un un’idea di cinema nella quale la componente autobiografica è uno degli elementi portanti dell’ispirazione, anche per questo cupo dramma intimista Nanni Moretti si affida al proprio vissuto «reale» per raccontare l’ennesima storia di una crisi esistenziale che parte dagli angusti confini dell’io tormentato del singolo per diventare grido di allarme sullo stato delle cose di un intero paese.

Al centro della vicenda c’è un nuovo alter-ego del regista e attore romano: questa volta è però una donna, la cinquantenne Margherita, regista «impegnata» abbonata a film di indagine sul reale e sulla contorta interiorità dei personaggi che ne sono la fauna tipica grazie ai quali si è conquistata la fama di autrice a tutto tondo, non senza però avere la nomea di persona bizzosa e incontentabile sul set.

Componenti queste che, se già presenti in larga misura nelle opere realizzate in precedenza, nel film che ha appena iniziato a girare sono ancora più accentuate dal tipo di vicenda che ha scelto di raccontare (e cioè gli scontri tra gli operai di una fabbrica in crisi e il nuovo padrone americano deciso a licenziarne un terzo), ma soprattutto da una serie di problematiche personali che la donna si trascina dietro sul set senza riuscire a scrollarsele di dosso lasciando che la influenzino in maniera massiccia nel lavoro.

Separata e con una figlia adolescente che frequenta con poca voglia e scarso profitto il liceo classico, Margherita ha appena chiuso una relazione con un attore più giovane di lei, che nel film che lei sta girando ha il ruolo di uno dei rappresentanti degli operai della fabbrica. Come se tutto questo non bastasse, la sua tribolata esistenza di cinquantenne in subbuglio è complicata dall’aggravarsi delle condizioni di salute della madre, una professoressa di greco e latino in pensione ricoverata in ospedale per gravi complicazioni cardiocircolatorie e al cui capezzale c’è ogni giorno anche il fratello di Margherita Giovanni, un ingegnere che si è messo in aspettativa per potersi dedicare praticamente a tempo pieno alla madre inferma.

Con l’aggravarsi progressivo e inesorabile delle condizioni di salute della donna anche i problemi sul set peggiorano giorno dopo giorno: incerta per la prima volta nella sua carriera sulla reale necessità del film impegnato che sta girando e sull’effettivo interesse che il pubblico potrebbe provare per problemi cui ormai la realtà della cronaca ha abituato tutti creando un clima di assuefazione generale, Margherita deve anche vedersela con le bizze della star italo-americana (un magnifico John Turturro al cui personaggio sono affidati i pochi momenti di relativa leggerezza comica presenti nel tessuto greve della sceneggiatura) che ha ingaggiato per interpretare il ruolo del magnate arrivato da oltreoceano per rilevare la fabbrica in crisi.

Non meno in crisi di ogni altro personaggio del film (stanco di trent’anni di finzione e assetato di vita «vera» che la professione scelta gli ha impedito di assaporare chiamandolo a recitare senza poter davvero mai vivere un’esistenza autentica), anche l’attore di John Turturro lotta coi suoi fantasmi interiori e condiziona inevitabilmente i tempi di lavorazione continuando a sbagliare le poche battute in italiano che deve pronunciare ma soprattutto alluvionando il personaggio che interpreta con la fragilità interiore che caratterizza questa fase della sua carriera.

Impostosi come autore di riferimento per molti cineasti anche al di fuori degli angusti confini nazionali e uno dei pochi registi italiani conosciuti e amati in tutto il mondo (oltre a essere uno dei pochissimi in grado di girare i film che vuole, come vuole e quando vuole anche grazie a un’accorta politica di strategie produttive e distributive messa in campo da tempo), con questo dolente dramma intimista Nanni Moretti torna nelle sale dopo le riflessioni civili e politiche de Il caimano e di Habemus Papam.

Ma il pensare che Mia madre sia soltanto un dramma semi-autobiografico con sofferte riflessioni sulla perdita di un congiunto dopo una lunga malattia e sulle difficoltà che si devono affrontare dopo essere rimasti orfani (senza distinzione di età, come accade ai fratelli Margherita e Giovanni) sarebbe fortemente riduttivo. Mia madre è infatti anche quel tipo di film. Ma, come sempre accade nel cinema di Moretti, lo sfruttamento del materiale autobiografico viene fatto in termini cinematograficamente strumentali per analizzare lo stato delle cose presenti e riflettere sul rapporto tra individuo (in crisi) e società (in pienissima crisi come quella italiana).

Le componenti autobiografiche sono ancora una volta più che palesi: a partire dai nomi dei due protagonisti (Margherita per Margherita Buy nel ruolo della regista e Giovanni per Nanni Moretti che invece recita nei panni del fratello deciso addirittura a licenziarsi pur di poter accudire la madre inferma) per arrivare a situazioni che hanno segnato la vita privata di Moretti negli ultimi anni (la separazione non indolore dalla moglie Silvia Nono e la perdita del padre prima e della madre nel 2010, la cui professione di docente di latino e greco nei licei è la stessa del personaggio del film).

Senza poi trascurare il fatto che la protagonista sia una sorta di nuovo alter-ego di Moretti al femminile, ovvero una specie di Michele Apicella in versione donna ma con tutte le contraddizioni, le fibrillazioni interiori, le insofferenze e le idiosincrasie che hanno da sempre contraddistinto quel personaggio di finzione che Moretti ha per anni eletto a rappresentate cinematografico di se stesso in buona parte delle pellicole da lui scritte, dirette, interpretate e prodotte. E, non ultimo, sarebbe ingiusto non menzionare la scelta di ambientare una buona metà della pellicola su un set in cui si sta girando un film, a conferma di quanto quell’ambiente sia stato e sia per Moretti il palcoscenico naturale di una consistente porzione del proprio vissuto reale.

Come quasi sempre accade nel suo cinema, il film è però anche una riflessione sofferta e acutissima sulla realtà che ci circonda mostrando di avere lo spessore e la profondità per andare aldilà del semplice sfruttamento drammaturgico degli accadimenti più o meno ordinari che caratterizzano la vita di ciascuno di noi e che possono diventare lo spunto per una sceneggiatura se adeguatamente scecherati con elementi di finzione.

Scegliendo di raccontare una vicenda in cui una regista sta girando un film sulla crisi del lavoro in Italia e sul senso di precarietà che attanaglia chi lotta per non entrare nel limbo di precarietà della cassa integrazione, Moretti dà apparentemente l’impressione di volersi accodare alla pletora di quanti, in forme diversissime e attraverso generi cinematografici spesso antitetici, hanno deciso negli ultimi anni di raccontare le criticità del mondo del lavoro sfruttandone le potenzialità drammatiche per fare presa sul pubblico o, nei peggiori dei casi, per imbastire mielose commedie su spunti più o meno riconducibili a quella crisi stessa di cui vorrebbero denunciare le devastanti conseguenze pratiche.

Anche in questo caso si tratta però solo di un geniale specchietto per le allodole. Nell’esercizio di metacinema che Moretti propone col film sul magnate italo-americano arrivato dalle nostre parti per rimettere in sesto una fabbrica bollita curandone i mali con la ricetta dei licenziamenti il regista romano mostra di aver optato per una prospettiva del tutto antipodale rispetto a quella appena descritta: la sua Margherita (ma anche la troupe che ne asseconda le bizze e la star americana in crisi d’identità), oltre ad aver perso ogni certezza in campo privato, non è più sicura di nulla nemmeno per quanto concerne il film che sta girando.

Attraverso le incertezze professionali del suo nuovo alter-ego femminile (incapace di capire se il film che ha appena iniziato a girare sia davvero tanto necessario quanto le sembrava fosse in partenza), Moretti offre al pubblico una riflessione a cuore aperto su un duplice aspetto che coinvolge tanto la realtà quanto la capacità che il cinema ha ormai di denunciarne le storture: i temi della crisi e le tragedie quotidiane di chi perde il lavoro forse non interessano più molto perché la gente è ormai assuefatta a quello che tempo fa poteva essere un tragico corollario della crisi ma che ora è diventato un leitmotiv dei telegiornali cui nessuno presta più particolare attenzione. Come se fosse un disturbo di fondo sul palcoscenico tragicomico di un paese avviato alla rovina senza accorgersi di esserlo.

Che potere può avere ormai il cinema (e non solo quello di Moretti, ma il cinema in genere) di fronte a un simile impasse? La risposta la dà la protagonista stessa del film, la regista in crisi che dirige i ciak senza più alcuna convinzione coinvolgendo l’intera troupe nel magma interiore delle sue incertezze: la sorte degli operai non interessa più a nessuno, così come ormai non è affatto chiaro se la gente da casa faccia il tifo per i lavoratori che protestano per i licenziamenti o pasolinianamente per i poliziotti che ne manganellano le teste per contenerne il lecito furore di protesta. Il cinema politico di impegno civile – sembra voler dire Moretti – non è più in grado di raccontare in maniera adeguata quel tipo di realtà e proprio per questo si deve arrendere di fronte all’impossibilità di farsi narrazione per immagini di una situazione criticissima ma depotenziata da un eccesso di altre immagini che ne rendono nullo l’impatto presso il pubblico se trasferita sul grande schermo come pretesto per un affresco sociale di denuncia.

Sospeso tra le note cupamente intimiste di un privato che non può – e forse non vuole – scrollarsi di dosso la propria provenienza autobiografica (con toni che richiamano alla memoria quelli ancora più sofferti de La stanza del figlio) e la riflessione sulla crisi del cinema come strumento di possibile intervento critico sulla realtà, Mia madre è l’inevitabile e coerente sviluppo di una filmografia, quella di Nanni Moretti, da sempre sostenuta dalla dialettica costruttiva tra individuo e collettività, riuscendo però anche a candidarsi a diventare uno dei testi più importanti sulla quella stessa crisi che il film sembra voler rifiutare di raccontare.

Trama

Regista impegnata ma da tempo in crisi professionale ed esistenziale, la cinquantenne Margherita ha appena iniziato la lavorazione di un film sugli accesi scontri tra gli operari di una fabbrica e il nuovo proprietario americano deciso a licenziarne un terzo. Ma le cose procedono a rilento e con grande fatica anche perché su tutto incombe minacciosa la malattia della madre della regista, ricoverata in ospedale e destinata a lasciare lei e il fratello Giovanni in balia di se stessi e del proprio scacco esistenziale.


di Redazione
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