Memory
La recensione di Memory, di Michel Franco, a cura di Andrea Bosco.
Rimarrà considerevolmente spiazzato da Memory chi si era abituato alle tinte forti, all’aria di distacco e all’ostentata impassibilità del cinema di Michel Franco, esponente di rilievo della seconda e più sanguigna leva del Nuevo Cine Mexicano, una generazione di filmmaker che annovera anche i colleghi Carlos Reygadas e Amat Escalante e che, a differenza dei “fratelli maggiori” Iñarritu, Cuarón e Del Toro, ha preferito stare alla larga dai lustrini di Hollywood e tenere fede alla natura più intransigente della sua identità artistica.
Conquistata attraverso anni di indefessa presenza nelle sezioni competitive di Cannes e Venezia la reputazione di emulo d’oltreoceano di Michael Haneke, il cineasta latinoamericano ha proposto a getto continuo un modello registico di insistita freddezza – quella che sottolinea la vacuità di operine pretenziose tipo Chronic e Sundown -, se non addirittura di esibita crudeltà, come quella di Después de Lucía, il cui finale ricalca di fatto quello di Funny Games, e ancor più dell’ideologicamente ambiguo Nuevo orden.
Si affina, anzi, e rimane fuori dal quadro quella rappresentazione della violenza, ora subitanea e scioccante, ora dilatata ed estenuante, che è stata sin dall’inizio al centro della poetica di Franco, resta confinata in un passato reso confuso, se non indecifrabile, dai meccanismi imperscrutabili di quella funzione identificata nel titolo: la memoria, appunto, quella che viene a poco a poco a mancare al cinquantenne affetto da demenza Saul e quella che confonde i ricordi della coetanea Sylvia, che crede di riconoscere in lui uno degli uomini che abusò fisicamente di lei al liceo, salvo ricredersi poco dopo.
Non è quindi una storia di vendetta quella che si dipana da questo spunto, nonostante l’autore abbia originariamente valutato l’idea in fase di scrittura, ma una di compassione, di partecipazione e, progressivamente, di amore, che parla di solitudini da colmare, di soglie da superare e di traumi da condividere, ed è proprio in una circostanza come questa che l’approccio imperturbabile di Franco trova la sua ragion d’essere, nel lavoro di sottrazione nei confronti di una materia che sarebbe potuta sfociare nel più trito dei mélo e che invece è tenuta lucidamente sotto controllo, tra i soliti campi medi a inquadratura fissa che non sono più bieca espressione di indifferenza, bensì la giusta distanza da cui mettere in scena il dramma, e il montaggio essenziale di Óscar Figueroa, ridotto all’osso in particolare nelle sequenze di maggiore impatto emotivo, che cessa di essere un mero ghiribizzo da confezione festivaliera e opera in virtù dell’impegno dei suoi interpreti.
Già, perché la riuscita di un film come Memory passa pure per i suoi attori, peraltro – se si esclude solo la sacrosanta e non scontata Coppa Volpi maschile – vergognosamente dimenticati per tutta la stagione premi: da una parte la prestazione tutta sotto le righe di un irresistibile Peter Sarsgaard, sguardo perso e disarmato, dolcissimo nella sua barba sfatta e nella sua frusta vestaglia quadrettata; dall’altra il riscatto di una grande Jessica Chastain, che, dopo un lungo limbo cinematografico culminato con l’immeritato Oscar per la sua performance trasformativa ne Gli occhi di Tammy Faye, ritrova lo smalto dei suoi primi anni di carriera in un progetto nel quale sembra aver creduto e investito molto, al punto da imporre personalmente alla produzione Sarsgaard in qualità di suo partner.
È una scelta vincente, che si traduce nell’indubbia alchimia che si instaura fra i due, nella naturalezza dei momenti più intimi e nella capacità di riempire i vuoti programmaticamente lasciati da Franco, che, fatte le dovute, necessarie proporzioni, pare voler dare respiro alla sua sempre più plumbea filmografia nello stesso modo in cui John Cassavetes intendeva riprendere fiato realizzando una commedia come Minnie & Moskowitz, non a caso citata come fonte di ispirazione per la decisiva revisione dello script, un’opera di transizione, lieve come le note di quell’A Whiter Shade of Pale che fa spesso capolino in colonna sonora.
Un bel rinnovamento, insomma, per il regista messicano, che probabilmente finirà per piacere soprattutto ai suoi detrattori, impreparati all’idea che, ebbene sì, anche un acclarato nichilista come Michel Franco possa avere un cuore.
di Andrea Bosco