Mare chiuso
In concorso al 22° “Festival del cinema africano” di Milano, questo doloroso ma necessario documentario di denuncia e impegno civile affronta con coraggio un argomento “tabu” di cui gli organi di informazione e la TV non hanno parlato molto. E non lo hanno fatto proprio perché rappresenta un pagina di vergogna nazionale legata ad alcune scelte di intransigenza radicale in materia di politica dell’immigrazione adottate dal Ministero dell’Interno del governo Berlusconi, ma anche alla scellerata e contestatissima amicizia tra l’ex Primo Ministro e l’ormai defunto Raís libico. Stiamo cioè parlando del respingimento forzato sulle coste libiche di quasi 2000 migranti che tra maggio 2009 e settembre 2010 cercarono di approdare in Italia per richiedere asilo, ma che furono rispediti al mittente con violenza inaudita finendo poi risucchiati in un vortice di follia detentiva e persecutoria da cui molti non sono più riusciti ad emergere.
A monte di tutto c’è il cosiddetto trattato di amicizia italo-libica siglato a Bengasi il 30 agosto 2008 dall’allora Primo Ministro Berlusconi e dal colonnello Gheddafi. Un trattato che, tra le pieghe di complessi accordi legati a questioni di risarcimenti post-coloniali, prospettava anche l’impegno reciproco da parte dei due paesi di abbracciare una politica comune di polso fermo nei confronti dei cosiddetti occhi chiusi di fronte alle emorragie di migranti in uscita (Libia) e delle braccia aperte verso l’accoglienza indiscriminata (Italia). In applicazione degli accordi siglati, l’Italia si dimostrò fin troppo solerte in una serie di respingimenti di barconi affollati da disperati in fuga da realtà socio-politiche di persecuzione e negazione di ogni diritto. Migranti che speravano di trovare in Italia un paese pronto ad applicare la normativa internazionale in materia di asilo politico e che invece cozzarono contro il muro ottuso e feroce della repressione militarizzata.
Il documentario di Andrea Segre e Cesare Liberti ricostruisce in maniera efficacemente dolorosa le odissee di molti di questi migranti, ripercorrendone i viaggi della speranza dalle lande più inospitali dell’Africa in costante subbuglio fino all’incontro/scontro con le forze dell’ordine italiane, chiamate a contenere l’emorragia degli approdi col ricorso a ogni forma di dissuasione quasi mai improntata al dialogo ma sempre impostata sulla violenza del contatto fisico, l’intimidazione, l’uso di strumenti elettrici di persuasione fisica, il sequestro dei documenti e il rimpatrio forzato verso le inospiti coste della Libia. Di qui il simbolismo contenuto nel titolo stesso del documentario che con l’idea di una chiusura del mare vuole puntare il dito contro l’atteggiamento di chiusura politica e umanitaria da parte del Governo italiano dell’epoca di fronte al grido disperato di aiuto di chi chiedeva solo di vedere accolta la propria giustificatissima richiesta di asilo.
Di questa indegna sequenza di violazioni e delle modalità in cui essere vennero portate a termine forse non si sarebbe mai saputo molto perché i giornalisti non erano ammessi sulle navi con cui la Marina Militare Italiana rimpatriava i profughi intercettati nelle acque territoriali, ma soprattutto perché le vittime di tanta barbarie venivano riconsegnate alle autorità libiche pur non essendo libiche ma risultando per la maggior parte dei casi profughi provenienti da Etiopia, Somalia ed Eritrea. Ed è stato solo a seguito del collasso del regime del colonnello Gheddafi che la situazione ha avuto uno sblocco: grazie infatti al trasferimento di molti ospiti delle carceri libiche nei campi allestiti dall’ONU in aree extralibiche durante le fasi più drammatiche della guerra civile che ha insanguinato il paese cirenaico, i due cineasti – e con loro molti giornalisti internazionali – hanno finalmente potuto parlare coi protagonisti di questa pagina indegna mettendo a punto l’ossatura di base del loro documentario.
Girando la scorsa estate nel settore somalo-etiope-eritreo del campo Shousha dell’UNHCR allestito ai confini tra Libia e Tunisia per i profughi della guerra libica e arrivando anche a utilizzare frammenti di video girati dalle vittime specifiche dei respingimenti in acque mediterranee, Segre e Liberti hanno messo insieme quanto basta per sbattere in faccia allo spettatore un condensato di un’ora di pene senza fine che fanno ancora più male perché sono raccontate dai diretti protagonisti di questi viaggi nell’allucinazione, ma anche perché aprono il coperchio su una botola mefitica in cui è finita una pagina vergognosa del nostro recentissimo passato prossimo che a ben pochi fa piacere venga messa in pubblico.
Vedere il film non sarà facile perché in ben poche città (ovvero Padova, Trento, Roma e Milano) verrà programmato con continuità nelle sale. Per un calendario aggiornato dei possibili appuntamenti si rimanda al blog che i due documentaristi hanno attivato proprio per sensibilizzare il pubblico e anche per segnalare gli appuntamenti delle varie proiezioni in giro per il “bel paese” (sempre meno bello se lo si giudica alla fine dei 60’ minuti di pena che il film regala a chi abbia voglia di vedere sciorinati in pubblico i panni sporchi di un paese arrivato al punto di non avere nemmeno più il coraggio della propria infamia).
Un “bel paese” che proprio nei giorni scorsi – come il documentario ricorda nella sua sequenza di chiusura – è stato condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per aver di fatto violato la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo. Quella stessa corte cui – come si apprende invece all’inizio del film – si erano rivolti 11 somali e 13 eritrei per denunciare l’atteggiamento delle autorità di polizia italiana nel corso dei famigerati respingimenti di cui erano stati involontari protagonisti insieme ad altre centinaia di compagni di sventura.
di Redazione