Maraviglioso Boccaccio

La complessa sfida accolta dall’ultima opera dei fratelli Taviani certamente non è priva di rischi. A portare al cinema il Decameron boccaccesco ci era riuscito splendidamente, all’inizio degli anni Settanta, Pier Paolo Pasolini, camminando sul filo sottile di una speciale naïveté: la particolare recitazione degli attori non professionisti per lui era diventata una sorta di vezzo, e la grande sapienza nella ricostruzione fantasiosa degli ambienti e dell’epoca, sempre vivida, affascinante, si sporcava costantemente di realtà. Una eccezionale naturalezza pervadeva dunque queste fiabe così magicamente impregnate di vita, una vita di cui sembrava di poter sentire in ogni istante gli odori, i sapori, il pulsare dei desideri e della paura.
Questi rari equilibri, questo peculiare senso di autenticità – di matericità, per così dire – disertano purtroppo il Maraviglioso Boccaccio dei Taviani, film non privo di pregi ma che tuttavia, soprattutto se si considera lo spessore dei registi, sotto alcuni aspetti resta a ben guardare irrisolto.
Anzitutto – forse a causa della specifica selezione degli episodi qui messi in scena – ai toni giocosi, ironici e liberatori dominanti in Boccaccio si preferisce spesso un lirismo meditativo e a tratti malinconico. Questa scelta, apparentemente nelle corde dei due registi, finisce però per allontanare troppo la trasposizione filmica dal sentire “dionisiaco” dello scrittore, con risultati non positivi. I brani più riusciti sono senz’altro quelli (pochi sfortunatamente!) toccati da una felice comicità: ricordiamo la presunta invisibilità del povero Calandrino (uno sbigottito Kim Rossi Stuart) deriso da tutti; e, ancora, la severità della madre Badessa (un’ottima Paola Cortellesi) che si sgretola improvvisamente quando la donna comprende di essere stata colta quasi in flagrante – con un uomo – dalle sue consorelle. Di contro, i passaggi dominati da toni tragici e gravi sono quelli meno credibili – pensiamo a Gentile (un ispirato e afflitto Scamarcio) che si strugge per la sua amata creduta morta. Qui non si percepisce certo quello spirito tutto boccaccesco che, esorcizzando la morte, vuole opporre ad angoscia e terrore vitalità e piacere.
Il nocciolo del problema va individuato però non tanto nelle scelte di regia – che, condivisibili o meno, sono comunque frutto di una precisa volontà – quanto sul piano, prima ancora che del casting, della recitazione: rigida, teatralizzata, forzata. Gli attori – con poche eccezioni – dichiarano le battute scritte di un copione, senza penetrare le parole, senza farne proprio il senso. E questo vale soprattutto per i giovani protagonisti della cornice che tiene assieme i vari racconti, ancor più che per i personaggi dei vari episodi che vengono narrati. E’ una tendenza, questa, che aveva già preso corpo ai tempi de L’ultimo bacio di Muccino, un approccio che sottrae realtà al cinema appiattendo la rappresentazione che, involontariamente, finisce per autodenunciarsi come tale, risultando più che mai televisiva. Uno dei difetti più macroscopici di tanto cinema italiano contemporaneo.
Fortunatamente il tocco dei Taviani si percepisce ancora nella pittoricità dei meravigliosi paesaggi, nella magnificenza di certe inquadrature, nell’attenzione al colore che caratterizza tanto le scelte scenografiche quanto i costumi. E tuttavia, in questo senso troviamo un altro limite: la perfezione, la levigatezza e la pulizia di certe scene finisce per rendere la rappresentazione artificiosa, soprattutto poiché a ciò si somma la marcata antinaturalezza degli interpreti.
La sensazione che resta, alla fine, è quella di un’opera non del tutto all’altezza delle aspettative che si propone, in cui un grandissimo potenziale – che va rintracciato anzitutto nella sapienza e nella lunga esperienza dei registi – viene infine disperso, indebolito, sfibrato per vari e diversi motivi. Maraviglioso Boccaccio è un mosaico composto da tessere in parte davvero pregevoli (quella visione ampia, profonda delle bellezze naturali e architettoniche) e in parte terribilmente esili (scelte e tendenze recitative e/o capacità attoriali) che, messe assieme, non producono insomma l’armonia che ci si aspetterebbe da autori che vantano una filmografia come quella dei fratelli Taviani, forte da sempre di una ricerca qualitativa serrata e costante tanto nella sostanza quanto nella forma.
Trama
Firenze, 1348: la peste devasta la città. Un gruppo di giovani decide di rifugiarsi in una grande casa di campagna per sfuggire al contagio. Qui, per trascorrere il tempo, scandiranno le giornate con novelle e racconti che ognuno di loro, a turno, reciterà per gli altri.
di Arianna Pagliara