Manodopera
La recensione di Manodopera, di Alain Unghetto, a cura di Alessandro Amato.
C’era una volta, in una regione al di là delle montagne, un villaggio chiamato Ughettera, ovvero “La terra degli Ughetto”. Cominciava forse così il racconto che il padre di Alain Ughetto gli raccontava quando era bambino, la storia dei nonni Luigi e Cesira emigrati dal Piemonte in Francia per lavoro, e che ha ispirato la creazione del film con tecnica stop motion Manodopera.
In realtà quello fu solo un punto di partenza: per approfondire la parte italiana di questa storia, l’autore ha preso infatti spunto da “Il mondo dei vinti” dello scrittore e partigiano cuneese Nuto Revelli. Ed ecco che pian piano ha preso forma il progetto dedicato non solo ai suoi avi ma a tutti coloro che sono costretti a partire alla ricerca di un avvenire in terra straniera. È in effetti evidente l’afflato anche politico del lungometraggio animato di Ughetto. Perlomeno il tentativo di tramutare il semplice aneddoto in un affresco storico e di conseguenza una testimonianza che da famigliare si rivelasse universale.
Ciò è possibile grazie alla struttura favolistica dell’operazione, affidata alla voce di una versione pupazzo di nonna Cesira, la quale racconta al nipote in carne e ossa fuori campo e allo spettatore i dettagli del lungo viaggio della sua vita. Alain, che le risponde non solo a parole ma fisicamente, inserendo la sua vera mano di bricoleur nel mondo ricostruito della vicenda. Il tutto si è concretizzato solamente dopo un lungo periodo di sperimentazione e ha assicurato uno splendido quanto imprevedibile risultato.
Grazie al sapiente equilibrio fra dramma e ironia e a elementi quali il cartello “Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani” (traduzione del titolo originale Interdit aux chiens et aux Italiens) sulla porta di una locanda francese, Manodopera si rivela un poetico e riuscito omaggio al passato non privo di spirito critico, capace di indicare senza retorica ciò che sarebbe bene non si ripetesse.
di Alessandro Amato