Magnifica presenza
Giunto al suo nono film e a due anni di distanza dalla sua ultima e convincente prova di Mine vaganti, con questo Magnifica presenza il regista istanbuliota ormai a tutti gli effetti naturalizzato italiano consegna al pubblico e alla critica un’opera densa e ricchissima di temi destinata di certo a far discutere proprio per la sua natura di testo composito e multistrato la cui complessità è l’indizio e il sintomo di una raggiunta maturità espressiva che nessuno può davvero più mettere in dubbio.
La vicenda ruota intorno al giovane aspirante attore Pietro che, giunto a Roma con il preciso intento di intraprendere la carriera teatrale, si mantiene sfornando nottetempo cornetti in una pasticceria multietnica del centro della capitale, mentre si interroga sulla propria irrisolta e monca omosessualità. Tutto sembrerebbe far pensare alla classica storia di formazione con inseguimento di sogni nel cassetto e qualche problematica gay di contorno, se non fosse che la storia sterza all’improvviso verso un’imprevedibile variante spiritistica: ciò accade quando il giovane si trasferisce in uno splendido appartamento del quartiere Monteverde (offertogli a un canone inspiegabilmente stracciato) e di lì a poco scopre che l’immobile è letteralmente abitato da strane presenze fantasmatiche intrappolate nella casa dal lontano 1943 e inevitabile giustificazione del titolo.
Il protagonista non ci mette molto a passare dagli spaventi iniziali alla progressiva accettazione dei misteriosi coinquilini considerandoli a poco a poco parte integrante del proprio quotidiano e indagando sul perché del loro essere intrappolati in quella casa. Da quel momento in poi, il film inizia a muoversi su due diversi assi temporali che si intersecano in un gioco di rimandi e di specchi e che condizionano gli snodi narrativi della sceneggiatura in un crescendo di tematiche che si sovrappongono per accumulo senza mai però mai pestarsi i piedi. Fino a quando il finale solutorio e catartico – del tutto in linea col carattere volutamente fiabesco dell’intero impianto narrativo – risolve armonicamente ogni conflitto in essere arrivando addirittura a rendere credibile ciò che per buona parte del film è arduo accettare sul piano della logica.
Tra i molti temi che si assiepano nel densissimo script firmato a quattro mani da Özpetek stesso e da Federica Pontremoli (abituale collaboratrice di Nanni Moretti, qui citato in modo fugace in un’inquadratura in cui è evidente che Pietro sta aggirandosi a Cinecittà mentre sono in pieno svolgimento le riprese di Habemus Papam), quello dei piani temporali e del loro interagire forzoso è infatti assolutamente pivotale nella struttura: se da una parte c’è l’incerto presente di Pietro con la sua vita irrisolta e al minimo contrattuale, dall’altra c’è il passato dei misteriosi coinquilini che si rivelano essere i membri di una compagnia teatrale morti in circostanze drammatiche che solo il finale svela e che non è corretto anticipare. I due piani narrativi si intersecano grazie all’intervento involontario ma risolutore di Pietro (è il solo inquilino tra i molti che lo hanno preceduto a non essere rimasto traumatizzato dalla magnifica presenza che popola la casa) e mettono a confronto due realtà non risolte che attendono di passare dalla potenza all’atto. Gli attori – in smoking e papillon gli uomini, in sontuosi vestiti da commedia sofisticata dei telefoni bianchi le donne, tutti con occhi bistrati in eccesso a sottolinearne la finzione di scena – sono inchiodati da 69 anni nell’immobile che è diventato la loro prigione nell’attesa che qualche anima pia li liberi dall’incantesimo rivelando loro il perché di una fine tanto tragica quale quella toccata loro in sorte. Pietro vorrebbe fare l’attore ma è vittima della propria inadeguatezza e si vede costretto a impastare cornetti aspettando che arrivi la rivelazione di un provino e che il fuoco della passione lo affranchi dalla miseria dell’esistere “reale”. Per questo tra lui giovane aspirante attore e gli ex attori professionisti convertiti in fantasmi sussiegosi scocca immediata la scintilla: entrambi sono imprigionati in una forma che non riesce a diventare essenza. Gli echi pirandelliani dei Sei personaggi in cerca d’autore non sono certo casuali. Tutt’altro. Perché è proprio questa scintilla che alimenta il meglio del film e che invita lo spettatore a concentrare la propria attenzione sul rapporto tra realtà e finzione.
Ma il film è troppo ricco per limitarsi a questo tipo di gioco da meta-teatro con la finzione (parola chiave ripetuta in modo ossessivo dai teatranti imprigionati nella casa) che sgambetta di continuo la realtà. Özpetek usa la struttura binaria dei piani temporali che cortocircuitano grazie alla mediazione di Pietro per fare posto a temi tanto cari al suo cinema. A partire da quello dell’incontro che modifica il destino degli umani: come ne La finestra di fronte o in Cuore sacro (altro titolo nel quale il regista turco aveva mostrato di non sapere resistere alla tentazione delle sirene paranormali), anche qui le prospettive dei personaggi cambiano quando la casualità di un evento apparentemente insignificante si impone come catalizzatore di sviluppi decisivi.
E inevitabile è poi la presenza del tema dell’omosessualità che Özpetek non ha mai smesso di rincorrere in tutto il suo cinema. In molti altri suoi film esso è centrale e i protagonisti si arrovellano intorno alla propria diversità (basti pensare a Le fate ignoranti o a Mine vaganti) cercando di imporla come normalità da vivere nel quotidiano di un mondo che la rifiuta. In questo suo ultimo lavoro l’omosessualità è invece presentata come una prova ulteriore dell’incompletezza che caratterizza tutti i personaggi in scena: come gli attori-fantasmi sono monchi nel loro percorso di liberazione da un passato che non li abbandona perché privo dell’ultimo capitolo di una storia di infamia e tradimento, allo stesso modo Pietro non riesce a completare il percorso di appropriazione di un’essenza imponendo il proprio orientamento sessuale. E non è un caso che non si accorga di un vicino che lo guarda con affetto ogni mattina al bar e che forse sarebbe pronto ad aiutarlo ad affrancarsi.
Ma ormai Özpetek ha il coraggio di osare di più e in Magnifica presenza (che vanta un cast superbo con Elio Germano strepitoso nei panni dello stralunato Candide Pietro e una rodata squadra di attori özpetekiani doc a fargli da contorno) c’è spazio anche per qualcosa di ancora più ambizioso. La grande Storia fa capolino tra le pieghe della sceneggiatura e Özpetek dimostra di essere ormai così maturo dal punto di vista espressivo da non temere che queste incursioni del Passato possano rompere l’incantesimo della sua fiaba. A corredo del tema dell’incompiutezza che incombe minacciosa tanto sui fantasmi quanto sulle creature vive che popolano il presente c’è infatti l’ombra minacciosa del Fascismo e del collaborazionismo (vedere per capire). Appena accennata e mai chiamata per nome, l’era del Ventennio salta agli occhi nei costumi degli attori prigionieri dell’appartamento di Pietro ma soprattutto risulta decisiva negli snodi narrativi per rendere compiuti questi otto personaggi in cerca d’autore.
E se di Storia si deve parlare, non si può non menzionare una bizzarra idea che però risulta strepitosa nella sua originalità e proietta Pietro e il presente su uno scenario storico che nessuno si aspetterebbe mai di vedere chiamato in causa: la passione del giovane attore in cerca di se stesso è infatti quella di raccogliere in un album delle figurine autoadesive che, invece di essere dedicate agli eroi del dio pallone, sono incentrate su figure e figuri del nostro Risorgimento. E l’Italia unita che viene celebrata in questo hobby infantile ma così profondamente “italiano” (quando nel finale gli attori riescono finalmente a evadere dalla loro forma uscendo dalla casa dopo aver scoperto chi abbia deciso il loro tragico destino, esprimono a Pietro la propria riconoscenza regalandogli la sola figurina che ancora gli mancasse per completare la collezione, e cioè quella introvabile di Garibaldi) conferma una volta di più come l’intero film ruoti intorno all’idea che la vera vita sia possibile solo nella piena realizzazione di un processo di completamento delle proprie potenzialità. Italia compresa.
TRAMA
Giovane aspirante attore si trasferisce dalla natia Sicilia a Roma dove si mantiene impastando cornetti la notte per poter studiare recitazione di giorno. Quando si trasferisce in una magnifica villa che gli viene affittata a un prezzo stracciato, la sua vita ha una svolta improvvisa perché scopre di dover condividere la casa con misteriosi inquilini che da inquietanti fantasmi si trasformano in presenze irrinunciabili.
di Redazione