Macbeth

Furioso, sanguigno, intenso. Carnale, corporeo, sensuale. L’australiano Justin Kurzel, qui al suo secondo film dopo il thriller Snowtown, non si lascia impressionare da Shakespeare e dalle altre riduzioni cinematografiche di Macbeth. Non tradisce il testo, tutt’altro, ma non ne resta prigioniero. Sa che la difficoltà suprema è quella di tradurre il linguaggio teatrale in qualcosa di fruibile al pubblico cinematografico e quindi interviene dove il testo teatrale tace: a livello visivo e dinamico.

Tradurre in film un capolavoro della letteratura ripropone un vecchio dilemma: allontanarsene, e quindi esporsi all’accusa di tradimento,  restarne fedeli rinunciando a una visione personale del testo. Qui il dilemma l’hanno vissuto, e risolto egregiamente, i tre sceneggiatori e il regista. I primi lasciando i principali dialoghi di Shakespeare, il secondo soggiogando la parola al fascino dell’immagine e al contrappunto della musica.

Scozia, cieli rosso fuoco su  vallate smeraldo; un medioevo terrificante e buio dove la morte è portata da povertà, fame, epidemie e, per i sopravvissuti, dalla guerra. Più che le parole possono le immagini. Fiammeggianti, infuocate, purpuree. Sanguigne, ma a tratti anemiche. Scintillanti, ma a tratti opache. La fotografia spesso indugia sulle emozioni di base, dove bagliori accecanti si librano oltre lo schermo. Kurzel sembra aver rubato parte della tavolozza di Mark Rothko, averla missata con i versi di Shakespeare e illuminata con la presenza di due star, Fassbender e Cotillard.

Parlare di Macbeth al cinema, significa evocare i molti (otto?) precedenti cinematografici o televisivi, di cui tre gloriosi, quelli firmati Welles (1948), Kurosawa (Il trono di sangue, 1957) e Polanski (1971), ma non per mera concessione alla cinefilia, ma perché il raffronto illumina l’audacia (o la superbia) di Justin Kurzel. Welles affonda il suo protagonista nella barbarie, agli albori della storia e della cultura, enfatizza al massimo le atmosfere cupe, accentua i contrasti del bianco e nero, utilizza lenti deformanti in funzione scenografica. Il suo Macbeth è figlio di una rappresentazione teatrale, come denunciano l’insistenza e la potenza dei piani sequenza.

Kurosawa si prende molte libertà rispetto al testo e privilegia un gigantesco affresco visivo, riassumendo i grandi temi della tragedia con le immagini, stilizzate e ieratiche, più che con le parole. Polanski infine sceglie una Scozia crudele e pagana e calca la mano sui toni cupi, brutali e sanguinosi (era il suo primo film dopo la strage in cui perse la moglie), ma rispetta scrupolosamente la tragedia di Shakespeare, pur abbassando l’età dei protagonisti e dando loro inquietudini moderne.

La lezione di Kurosawa sembra qui la meno lontana, ma in realtà Kurzel è debitore di un certo linguaggio pop televisivo, genere Il Trono di Spade (che naturalmente a Shakespeare deve molto), soprattutto nelle scene  di guerra, dove indulge nella crudeltà dell’azione, impiega i rallenty per dare forza pittorica alla battaglie, usa spesso il controluce, ma non dimentica (per fortuna) nel montaggio di inserire fin da subito le emozioni del protagonista.

Questa regia carica di suggestioni fisiche colloca il film in una dimensione atemporale in cui la realtà subisce un processo onirico. Gli interpreti mettono il loro magnetismo a servizio delle scelte registiche più che delle parole di Shakespeare. Fassbender appare dapprima dubbioso, poi ferino, infine dannato. Gli luccicano gli occhi e i denti, ma purtroppo la barba  e il trucco spesso lo nascondono, offuscandone la fotogenia. Cotillard è una Lady Macbeth spiazzante, che sa giocare sapientemente la contraddizione profonda e insanabile tra l’aspetto angelico e la corruzione dell’animo. Calca la maschera della cattiveria, poi della follia, infine, quando la spirale del sangue la travolge, quella del pentimento e della vulnerabilità.

Sceneggiatura avvincente, ritmo ben calibrato, interpretazione potente, fotografia capace di rappresentare cromaticamente la psiche sempre più deviata dei protagonisti: tante qualità hanno un costo. Il film non risulta all’altezza delle sue parti. L’attenzione del regista sembra disperdersi in numerosi rivoli. C’è molto Shakespeare, come si è detto, ma sottotono, bisbigliato, sempre difficile da seguire al cinema come tutto il repertorio teatrale classico. Kurzel, abbandonandosi alle suggestioni figurative, non si cura troppo di spiegare e farsi seguire dallo spettatore. E curiosamente, dopo averla annunciata, si permette di non mettere in scena la “marcia” della foresta di Birnan su Dunsinane, sostituendola con un rossissimo incendio di alberi. Si rintracciano a fatica la discesa agli inferi dei protagonisti, la brama del potere (e le nefandezze del suo esercizio) e le derive fantastiche e soprannaturali che Shakespeare lascia intravedere, ai confini della visionarietà e della metafisica.  Il risultato sembra sospeso tra un horror grondante sangue e un immaginifico viaggio all’inferno, pieno di peccati e rimorsi. Un appagamento sensoriale.

Trama

Macbeth, spinto dall’ambiziosa moglie, uccide il re Duncan di Scozia dopo che tre streghe gli hanno profetizzato la sua ascesa al trono. Ma per mantenere lo scettro uccide l’amico Banquo e si lascia travolgere da un vortice di delitti. Lady Macbeth soccombe ai rimorsi e muore; Macbeth viene ucciso in battaglia dai fedeli di Duncan.


di Giorgio Rinaldi
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