L’uomo nero
Sergio Rubini ritorna dietro la macchina da presa, portando sul grande schermo uno dei suoi soggetti preferiti, “l’amarcord” in riferimento ai propri luoghi di origine. Gabriele Rossetti ritorna a Bari per la morte di suo padre. Proprio in quel preciso momento ripercorre, con la mente, la sua infanzia, passando in rassegna tutti quei ricordi legati a suo padre Ernesto, un capostazione con la passione per la pittura. Un uomo che, ostinato a realizzare una mostra in omaggio a Cèzanne, viene ripetutamente messo in ridicolo dai potenti “signorotti” e critici d’arte della città. Gabriele rivive la sofferenza esasperata di suo padre, la sua determinazione ossessiva, a tal punto di non riuscire né a vedere né a comprendere tutto quello che gli accade intorno a lui.
Dopo Tutto l’amore che c’è, L’amore ritorna, Terra, Rubini ritorna ad analizzare il contesto della memoria affettiva, ( dopo il thriller Colpo d’occhio) e lo fa con una particolare contrapposizione tra realtà e immaginazione, offrendo così due chiavi di lettura.
Gli occhi di Gabriele bambino vedono un padre ostinato ma umiliato e deriso, che per la sua passione non riconosciuta riesce addirittura a mandare a monte la sua festa di compleanno tanto attesa. Gli occhi di Gabriele vedono Cezanne con il volto dello zio Pinuccio, che lo conduce nei percorsi labirintici della Pinacoteca di Bari; vedono personaggi mascherati che si materializzano improvvisamente nella sua camera, e vedono morti, quei morti tanto amati da sua madre (interpretata da Valeria Golino). Poi c’è lui, il misterioso “uomo nero” con occhi sanguinanti e sguardo penetrante ed enigmatico, ma che in realtà, si mostrerà essere un generoso distributore di caramelle. Il piccolo Gabriele sembra costruirsi un mondo parallelo, quasi una sorta di rifugio “emotivo”, che lo porta lontano dalle continue liti dei genitori. Oltre al mondo immaginario, per il bambino c’è anche l’affetto per suo zio (che qui ha il volto di Riccardo Scamarcio), al quale è legato profondamente. Sarà lui a insegnargli, infatti, come rapportarsi con “il gentil sesso”. Quello che, però, non funziona pienamente nel film di Rubini, e l’insieme dei troppi elementi contenutistici, che, inevitabilmente, costituiscono dei seri spunti di riflessione. Il padre apertamente preso in giro e snobbato da una classe potente, facoltosa, un po’ (tanto) falsa e forse neanche troppo competente (come si scoprirà alla fine) non è certo cosa da poco. Il dramma esistenziale di un uomo e il mondo visto da un bambino di otto anni a volte stonano, sebbene nella narrazione dei fatti prevalga spesso il tono della commedia.
L’uomo nero sarebbe stato ancor più speciale se avesse lasciato, per tutto il film, quell’alone di mistero e di fantasia che la mente di un bambino elabora, nell’affrontare e guardare il mondo dei grandi.
Nonostante questo, la sequenza dei flashback non appesantisce la sceneggiatura, e la storia procede con una discreta linearità. Gli attori interpretano i loro personaggi in maniera naturale, con una credibilità che aumenta grazie alle origini pugliesi dei protagonisti Rubini e Scamarcio. Bravo anche il piccolo Guido Giaquinto, che con espressività e spontaneità, riesce a dare colore e una forte emotività al personaggio di Gabriele.
I fatti si susseguono con un ritmo coinvolgente e attraverso uno stile a volte bizzarro e grottesco. La sofferenza di Gabriele adulto si scontra con quella di Gabriele faciullo anche nella resa formale, con una giustapposizione di colori, toni e luoghi. Appropriata l’ambientazione e la rievocazione degli anni 60, grazie anche a una fotografia, molto attenta ai particolari e al gusto dell’epoca. Un intreccio raccontato con una vena poetica ed una viva esplosione di colori, come negli scorci paesaggistici e nel mondo fantastico del bambino.
La conclusione è originale e inaspettata, ed il messaggio del film rimane, purtroppo, ancora molto attuale.
Elisabetta Monti
In una stanza di ospedale, un uomo sta morendo: il figlio, venuto da lontano, si precipita dall’anziano padre e riesce a cogliere le sue ultime, divertite e sibilline, parole. Inizia così L’uomo nero di Sergio Rubini, un film fantasiosamente autobiografico, a tratti visionario, ironico e divertente, sintesi riuscita dei precedenti La stazione (1990) e Colpo d’occhio (2007). Di fronte alla morte del genitore, il protagonista, un uomo (Fabrizio Gifuni) di nome Gabriele, salutato dai paesani come un personaggio di successo, si trova a dover fare i conti con il passato e gli insegnamenti paterni. Si rivede bambino e ricorda la sua infanzia, con la rassegnata madre (Valeria Golino) e con il padre Ernesto (Rubini stesso), capostazione frustrato e aspirante pittore, con una grande passione per Cezanne. Il povero Ernesto lotta con tutto se stesso per affermare la sua arte ma, ogni volta, finisce vittima dei pregiudizi e dell’immobilismo di provincia, incarnati dal presuntuoso critico e dall’avvocato (Maurizio Micheli) del paese. Gabriele bambino non capisce l’entusiasmo e l’ostinazione paterna per la pittura e preferisce la compagnia dello zio (Riccardo Scamarcio), scapolo allegro e scanzonato.
La situazione precipita in occasione dell’ottavo compleanno del piccolo, quando, dopo una mostra fallita, l’irriducibile Ernesto continua a riproporre il suo soggetto preferito, un autoritratto di Cezanne, all’insensibile critico locale. Gabriele adulto scoprirà, infine, che il padre non avrebbe, in ogni caso, potuto averla vinta con l’impietoso critico. Quest’ultimo, soltanto al funerale, riconoscerà il talento di Ernesto: “Era bravo pure a pittare… Peccato che lasciò perdere.”
Potrebbe sembrare che a Rubini interessi polemizzare con il mondo della critica: in realtà, il tema vero del film è il rapporto padre-figlio, l’elaborazione del lutto e il recupero di una figura paterna positiva. Quando, nel finale, Gabriele incontra al cimitero il fantasma del padre che, con leggerezza, dice: “Mi dovrei rimettere a pittare”, le incomprensioni passate sono, ormai, del tutto superate.
Un’opera godibile e tenera, impreziosita dalla fotografia di Fabio Cianchetti e dalla rappresentazione, con echi felliniani, delle fantasie del bambino che osserva prender corpo i sogni della madre, immagina lo zio tanto amato nei panni di Cezanne e vede, persino, animarsi l’Arlecchino del grande pittore. Unico neo di questo bel film è la musica di Nicola Piovani che, riproponendo atmosfere e suoni già sentiti, provoca nello spettatore una sorta di spiazzamento e di confusione emotiva.
Mariella Cruciani
©Punto di Svista – La Recensione firmata da Mariella Cruciani è stata pubblicata su Punto di Svista – Arti Visive in Italia (www.puntodisvista.net)
di Elisabetta Monti