L’uomo di neve

Prendere o lasciare. Non accetta le mezze misure L’uomo di neve, prima trasposizione cinematografica di un  best seller del norvegese Jo Nesbo, tratto dal settimo libro della saga che vede come protagonista l’ispettore Harry Hole. Tomas Alfredson, il regista svedese de La talpa, che firma così la sua terza regia per il cinema, dopo una lunga serie di tv movies, non ha freni inibitori capaci di mutilare le sue scelte; ha il polso fermo degli autori puri e duri. Adotta un thriller con tendenze horror, lo disossa, nasconde la trama tra le righe, non conduce lo spettatore su false piste prima di approdare all’individuazione del colpevole, ma lo guida in un’immersione totale, in un’atmosfera inquietante senza ancoraggi. Dove potrebbe aggirarsi anche Anders Breivik, il norvegese autore del massacro di Utoia.

L’amante del thriller si sente tradito, i delitti non offrono emozioni, l’indagine si disperde nel buio. L’appassionato dell’horror, anche della sua versione glaciale-nordica, si sente deluso: la suspence latita, le decapitazioni non si vedono. Sembra che Alfredson e i suoi sceneggiatori abbiano preso personaggi e vicende e atmosfere create da Nesbo, li abbiano rovesciati su un tavolo operatorio, mandandoli in frantumi, e abbiano filmato l’effetto che fa. Tra i frammenti si genera un’attrazione o un respingimento che spiazza lo spettatore, seducendolo o scandalizzandolo. Il promesso thriller sembra un dietro le quinte del thriller o il risultato di un’autopsia.

La sceneggiatura a sei mani nasconde il confuso intreccio in un paesaggio disossato e spoglio che sembra preso a prestito da un film su un futuro immaginario, abitato da replicanti o da zombi, luogo di silenzio, anzi di silenzio assoluto, e quindi di morte. Le automobili sfrecciano su strade deserte che la neve e il ghiaccio nascondono in un paesaggio arido, senza confini e senza orizzonti. Ponti a schiena d’asino sono lanciati sulle acque plumbee dei fiordi. Lo spettatore è dimenticato in questa solitudine, respinto a bordocampo dal rigore della regia, ma è anche libero di piazzarvi i propri incubi o desiderare incontri impossibili. Io, ad esempio, ho atteso invano che una di queste Volvo si imbattesse nel carro di Tespi del Settimo sigillo, con la Morte che  pedina e raggiunge il cavaliere impegnandolo in una partita a scacchi e poi trascinandolo in una danza macabra.

Martin Scorsese doveva dirigere  questo film, che alla fine lo vede impegnato nella pletora dei produttori esecutivi. Roba da non crederci. Il regista delle metropoli iperrealistiche, pullulanti di sbandati e gangster, è agli antipodi di questo Alfredson che si limita a fotografare a distanza i personaggi, tace sulla loro psiche, e nasconde il frastuono delle città. A dispetto delle origini e delle traversie della produzione (la regia era stata offerta anche a Morten Tyldum), Alfredson firma un’opera d’autore apparentemente in assoluta libertà fin dai titoli di testa che scorrono su una delle scene più belle: il vagare della cinepresa tra le grigie statue del parco Vigeland di Oslo, glaciali e solitarie, spruzzate di neve, simili a replicanti ancora prigionieri del loro baccello. Qualità che il regista conferma nelle scene seguenti con la fuga dell’auto lanciata  a folle velocità sul ghiaccio e la morte per annegamento della matrigna che si imprigiona nell’abitacolo della vettura.

I lettori di Nesbo e i fans di Hole gridano al tradimento, denunciano parecchie libertà rispetto all’omonimo romanzo. Non ritrovano lo spirito disturbante della saga, e lamentano una versione meno respingente dell’antieroe protagonista, un alcolista consumato dal bere e dai propri demoni interni, e non il macho dal fisico imponente e palestrato di Fassbender. Non conoscendo il romanzo non possiamo pronunciarci, ma possiamo assicurare che qui non trovano posto la routine del mystery e i luoghi comuni del sottogenere del serial killer. La regia segue il “come” e il “cosa” della vicenda senza privilegiare l’uno o l’altra. Enfatizza gli spazi vuoti e le sospensioni. I personaggi sono tenuti a debita distanza, non creano e non vogliono creare alcuna empatia con lo spettatore. Entra invece misteriosamente a far parte della storia la natura con la sua maestosità e indifferenza verso gli uomini. E’ un puzzle, L’uomo di neve, che invita lo spettatore a operare un difficile e lento assemblaggio, con risultati che, pur esatti, tra loro possono divergere.

Trama

Un serial killer uccide mogli depresse, madri single o con figli di incerta paternità. Il superdetective Harry Hole si mette sulle sue tracce, anche grazie a un pupazzo di ghiaccio che si firma “uomo di neve”, e che segnala le minacce incombenti.


di Giorgio Rinaldi
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