L’uomo che non c’era
Esistono film che attingono dall’immaginario cinematografico senza citazionismo, senza riferimenti precisi o omaggi scoperti a pellicole ben precise, ma con il gusto di riportare alla mente atmosfere, suggestioni, ricordi sussurrati. I fratelliJoel ed Ethan Coen sono da sempre dei maestri in questa specialità; nel corso della loro filmografia sono riusciti a creare una sorta di vera e propria “storia del cinema in cinema”, attingendo di volta in volta alle epoche più disparate e agli stili più diversi, e inseguendo lo “spirito-guida” di un’intuizione, di un super-personaggio, di un protagonista ineffabile, invisibile, astratto ma costantemente presente: la neve, a rappresentare il freddo interiore ed esteriore, in Fargo; il perdente, simbolo di una società nascosta, in Il grande Lebowskj; la musica country, nostalgico reperto di una presunta “età dell’oro” americana, in Fratello, dove sei?. Un processo produttivo in cui l’idea iniziale, anche la più semplice e banale, finisce per essere il principio fondamentale attorno al quale costruire l’intero film. La fotografia, i movimenti di macchina, la scelta dei costumi e degli attori, la musica, la sceneggiatura, tutto è in funzione di quel primo spunto.
L’uomo che non c’era è senza dubbio dominato, guidato, schiavizzato dal “bianco e nero”; qui, nella sintesi di tutti gli elementi costitutivi di un film, si raggiunge un livello vicinissimo alla perfezione; ogni ingrediente è dosato e calibrato allo scopo di ottenere un risultato ben preciso. Il film, nel suo ispirarsi alle atmosfere del cinema noir degli anni quaranta e cinquanta, come si diceva, non esce allo scoperto, non cede alla tentazione facile di “rifare” quel tipo di cinema; piuttosto gioca con quel cinema, se ne serve per uno scopo ancora più nobile che non quello di un revival gustoso ma fine a se stesso. Nel raccontare la vicenda di questo barbiere costretto a stare “nel” mondo senza essere “del” mondo, chiuso in un guscio di fumosa incomunicabilità dietro alla quale si nasconde un universo di pensiero dalle profondità insondabili, nel mostrare la distruzione progressiva dei progetti di quest’uomo medio, apparentemente inetto, realmente soprannaturale, il film canta un inno di lode alle potenzialità della macchina cinematografica, la “fabbrica dei sogni”.
La regia gioca a nascondersi, a mimetizzarsi per scherzo nello stile dei “bei tempi andati”; la fotografia scopre le infinite possibilità cromatiche di una pellicola che, per definizione, dovrebbe consentirne solo due, nell’impressione (realtà o suggestione?) di viraggi in blu, violetto, verde; la recitazione controllatissima degli interpreti, tutti perfetti, dove anche il movimento di un sopracciglio è dosato con il contagocce, consente allo spettatore di scavare all’interno dei personaggi; la sceneggiatura impeccabile, parole poche ma buone e giuste, sempre in grado di adeguarsi e insieme di guidare le scelte visive; la musica, commento sublime ma anche co-protagonista nella costruzione dell’intreccio, con l’adagio della “patetica” di Beethoven a cullare le elucubrazioni silenziose del barbiere, il muto che fa amicizia col sordo.
Il film è un meccanismo perfettamente oliato, fila via sul velluto dell’ironia e dell’eleganza, nei suoi finali fittizi che scavano sempre più in profondità nell’interiorità di un “uomo comune fuori dal comune”. I Coen indicano con autorità una terza via che sta tra la citazione, che portata all’estremo diventa remake, e la ricerca sempre più ossessiva di nuove forme di montaggio, di angolazioni di ripresa tanto inusuali quanto, a volte, inutili.
Un saggio sulle potenzialità del cinema che può e deve trovare nuova linfa vitale anche nel nutrirsi, con intelligenza, del passato.
Ludovico Bonora
Classicità e modernità nel cinema dei fratelli Coen
di Maurizio Fantoni Minnella
Quello dei fratelli Coen è sempre stato un cinema di gusto retrò.
Attirati dalla violenza come molti fra i migliori registi americani contemporanei, ma in un’accezione affatto diversa rispetto, ad esempio, ad un Abel Ferrara, i due fratelli (l’uno regista e l’altro produttore), difendono il diritto ad un cinema capace ancora di un’indagine profonda sull’individuo nei suoi rapporti con gli altri uomini, spesso di pura istintività e violenza. Un cinema che mostra di prediligere atmosfere noir e l’ambiente della provincia americana (con alcune eccezioni come il penultimo film, il picaresco Fratello, dove sei?, 2000) in un delicato equilibrio tra classicità e modernità.
L’uomo che non c’era, certamente il loro capolavoro, spinge l’analisi del comportamento umano alle conseguenze più estreme. Calato in un bianco e nero dove i grigi sono sbiaditi, i bianchi non sono bianchi e il nero è solo nelle sagome dei personaggi, il film si compone di un dolente apologo dove tutti sono colpevoli e dove l’anima tormentata del protagonista, un barbiere, un uomo invisibile senza qualità, può placarsi solamente di fronte al vuoto infinito della sedia elettrica. Egli ha commesso un omicidio e un ricatto ai danni dell’amante di sua moglie.
Dal classico tema del delitto si dipana una trama narrata con la mano sinistra, tendente cioè alla definizione di un teorema etico-morale ed esistenziale. Per questo è possibile rilevare influenze hitchcockiane, sebbene nel cinema del maestro inglese l’architettura razionale dell’azione finisca per prevalere sulla riflessione morale.
La stessa storia narrata è ricca di colpi di scena: non è che la contorta geometria di una dannazione ed è insieme ricerca di sé attraverso le maschere dei propri simili. E la voce fuori campo, che tanta parte ebbe nella tradizione del noir americano da Chandler in poi, indica un itinerario mentale più che mero commento all’azione.
La regia di Coen, grazie anche ad una perfetta illuminazione e ad ambientazioni stilizzate in senso espressionista, aderisce a quella geometria dei corpi e di spazi cui si contrappongono i primi piani del protagonista, con un senso del tempo, sospeso tra l’horror vacui e la malinconia, come a dire che la vita è un paradosso da cui non si può sfuggire se non con la propria morte.
Maurizio Fantoni Minnella
di Ludovico Bonora