L’ultimo lupo

Quando si enfatizza la difficoltà avuta nel girare e nel produrre, quando si parla troppo di svolta epocale, e quando si cerca di parlare di nuovo modo di intendere il cinema, probabilmente il film di cui si tratta ha bisogno di pesanti difese d’ufficio che sopperiscano al suo risultato finale non sempre eclatante. Jean-Jacques Annaud ci ha abituato alla sua passione per gli animali che ha fatto vivere come protagonisti veri ne L’orso (L’ours, 1988) girato in Trentino, e ne Due fratelli (Deux frères, 2004) storia strappalacrime sulla vita di due cuccioli di tigre. Ne L’ultimo lupo, è vero, il problema era quello di fare “recitare” lupi mongoli e di girare in condizioni atmosferiche spesso avverse, ma queste sono difficoltà risolvibili se affidate nello sviluppo a un’equipe di tecnici affidabili.
Annaud utilizza la sua collaudata capacità di fare lavorare gli animali come fossero dei bambini a cui fare capire la scena per poi interpretarla in maniera spontanea ma in molti casi è aiutato dal montaggio e dagli effetti speciali che, ad esempio, cancellano gli addestratori che affiancano spesso gli animali.

Se consideriamo quella sugli animali da lui realizzata una trilogia, L’ultimo lupo è sicuramente il film meno riuscito. Tratto dal romanzo semiautobiografico Il totem del lupo di Jiang Rong (alias Lu Jiamin), bestseller tradotto fino ad ora in ventotto lingue e che in Cina ha venduto più di venti milioni di copie, ne estrapola soprattutto il rapporto tra lo studente venuto da Pechino e i lupi;  pochissimo viene detto sui rapporti umani tra il ragazzo di città e la saggezza dei mongoli che combattono per fare sopravvivere le proprie tradizioni, per non fare scomparire la grandezza di chi con Gengis Khan aveva dominato il mondo.

Lu Jiamin, ora professore di Scienze Politiche all’Università di Pechino, sposato con la famosa scrittrice Zhang Kangkang, era un ribelle che aveva subito quattro condanne, la prima delle quali a diciotto anni, in quanto contro-rivoluzionario; orfano della madre a undici anni e successivamente del padre accademico rivoluzionario, morto per fucilazione, era diviso tra le teorie maoiste e il liberismo occidentale; si unì alle Guardie Rosse e giurò fedeltà al Libretto Rosso preso dal desiderio di sradicare i “quattro vecchi” (vecchi pensieri, vecchia cultura, vecchi costumi e vecchie abitudini).

Nel romanzo c’è il racconto dello scontro con se stesso, la capacità di imparare dalle persone che era andato ad educare, la voglia di rimanere con loro per combattere e aiutare a portare avanti la guerra contro il Regime centrale. Prima di tornare nella capitale, ha vissuto con loro undici anni. Lo pseudonimo Jiang Rong, con cui ha pubblicato quasi in maniera anonima il romanzo, gli ha permesso di non essere collegato al dissidente che le autorità avevano precluso dal mondo dell’insegnamento e letterario.

Anche se mai  ammesso da Annaud, il peso della produzione cinese, che ha messo a disposizione circa quaranta milioni di dollari e che si è trasformata in sino-francese solo nel 2014, si fa sentire in molte pagine scritte, o non scritte, della sceneggiatura. Si ha l’impressione di essere di fronte ad una pseudo denuncia dove molto è giustificato perché quegli anni sono ormai passati, solo con qualche j’accuse di maniera. È vero che la censura cinese non ha preteso che minime trasformazioni sul girato, ma è difficile immaginare cosa avrebbe potuto loro dare fastidio. Due commissioni che hanno controllato il suo lavoro e, probabilmente, consigliato nelle scelte da fare per non aver problemi.

Sette anni dall’inizio del progetto alla fine del film, i contatti con i cinesi entusiasti di fare un loro film affidandolo ad un regista francese che avrebbe dato una maggiore credibilità a quanto raccontato, un finale pseudo ecologico che suona come parziale mea culpa per una situazione di degrado ambientale che vede la Cina tristemente primeggiare nel mondo. L’enorme lavoro fatto dall’addestratore canadese Andrew Simpson, a cui nel 2010 era stato affidato il compito di preparare i lupi mongoli e che in Cina si è trasferito per tre anni, ha permesso di seguire 16 cuccioli da appena nati all’età adulta che lo hanno visto come un amico con cui collaborare. Poi, duecento cavalli, circa un migliaio di pecore, venticinque lupi, compresi gli ex cuccioli, e una cinquantina di addestratori che si occupavano di loro per realizzare scene molto bene costruite ma non necessariamente emozionanti.

Annaud, qui al suo tredicesimo lungometraggio, dà vita a una favola ecologista che vuole dimostrare come l’equilibrio del mondo venga messo in pericolo non dagli animali, che uccidono solo per istinto, ma dalla inutile cattiveria e stupidità degli uomini. Descrive la capacità dei Mongoli di convivere con i lupi, rispettando le loro esigenze e saziandoli per evitare che mangino le loro pecore, la follia di chi per denaro disequilibra questo meccanismo, di un potere centrale odioso e determinato che nulla sa di questo popolo ma che ha deciso di renderlo privo di identità sterminando anche i lupi che fanno parte anche della loro cultura.

Peccato che l’atmosfera da blockbuster, la voglia di piacere a tutti i costi faccia firmare al settantaduenne regista francese un film mediocremente bello che, forse, piacerà ad un pubblico familiare ma che ha troppe scene violente per essere visto senza patemi d’animo da parte dei preoccupati genitori.

TRAMA

Cina, 1969. Lo studente Chen Zhen, Guardia Rossa non completamente inquadrato nella filosofia della Rivoluzione culturale, viene inviato da Pechino in un villaggio della Mongolia con la missione di insegnare a leggere e scrivere ad una tribù di pastori. A contatto con questa nuova realtà, il ragazzo impara cose fino ad allora a lui sconosciute. Sedotto dal legame che lega i pastori con il lupo, creatura venerata nelle steppe, deciderà di addomesticare un cucciolo e di andare contro la decisione del governo di eliminare tutti i lupi della zona.


di Redazione
Condividi