Lubo

La recensione di Lubo, di Giorgio Diritti, a cura di Alessandro Amato.

«Come devo chiamarti?». L’uomo seduto di fronte all’ispettore che lo sta interrogando ha avuto più nomi di quelli che avrebbe voluto. «Io sono Lubo», risponde. Una vita in fuga dalla legge, certo, ma non dal mondo. Nella realtà cinica e perbenista della bella società svizzera, anzi, l’artista di strada ci si era immerso totalmente, sfruttandone i mezzi per riuscire a ritrovare i tre figli che i gendarmi gli avevano tolto con la scusa di civilizzarli. Le diverse identità che ha avuto, anche se apparentemente slegate fra loro, non lo hanno sviato dall’obiettivo prefisso ma semmai guidato nel percorso, di volta in volta facilitandogli un’esistenza da spettro. Le donne che ha incontrato, sedotto, e persino corrisposto, poi, sono solo l’effetto collaterale emotivo di un viaggio abitato nella sua intensità umanissima. In questo senso, Lubo è sì un criminale ma alla fine dei conti non un mostro.

Tutto ha inizio quando, sulla strada da una fiera di paese all’altra, la famiglia nomade di Lubo viene fermata dai soldati e lui costretto a seguirli. I nazisti hanno invaso la Francia e la Svizzera si prepara a difendere i confini mettendo la divisa su ogni uomo adulto e sano. Mentre si trova sui monti, la moglie viene assassinata e i figli prelevati per essere mandati a scuola ed eventualmente adottati. Una volta saputo, Lubo decide senza indugio di uccidere un contrabbandiere austriaco per fingersi morto prendendone il posto e i beni, dando il là ad una forsennata ricerca della prole ormai perduta nei meandri della burocrazia. L’occasione per ritrovare la paternità negata arriva anni dopo con una bella cameriera italiana conosciuta in un albergo di Bellinzona: i due si amano e insieme generano un figlio, che però Lubo non riuscirà a vedere nascere perché nel frattempo catturato dalla polizia.

Il nuovo film di Giorgio Diritti, scritto con il fidato collaboratore Fredo Valla partendo dal curioso libro “Il seminatore” di Mario Cavatore, aveva a disposizione un’idea che le immagini introducono ma relegando lo spunto ad un pugno di scene, e che sarebbe il racconto di una sottile vendetta: dal momento che i suoi figli finiscono nelle mani delle istituzioni, Lubo comincia a inseminare un serie di donne dell’alta borghesia cittadina causando gravidanze e interrompendo linee di sangue. Questa geniale idea narrativa, però, perde la sua centralità nelle tre ore dell’opera filmica, lasciando il passo ad un giallo tragico prima e un dramma umanista poi. Un film politico sulla libertà, contro l’abuso del potere. Straordinaria l’interpretazione di Franz Rogowski, con quei suoi occhi azzurri sempre un po’ spiritati. Notevole la ricostruzione storica, in particolare nei suggestivi scorci lacustri verbanesi.


di Alessandro Amato
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