Love & Secrets

Il nome di Andrew Jarecki era salito alla ribalta per un agghiacciante e splendido documentario da lui diretto nel 2003 (premiato al Sundance dalla giuria) e incentrato sugli orrori che si annidano dietro la facciata perbene di una normalissima famiglia americana. Non a caso il titolo era Una famiglia americana (anche se l’originale Capturing the Friedmans dava un senso più chiaro della ferocia del ritratto in interni borghesi con vista sullo spavento di troppi cuori di tenebra) e Jarecki aveva dimostrato un’incredibile abilità nel lavorare di bisturi documentaristico sul mito della rispettabilità apparente su cui da sempre poggia la sua credibilità l’istituto cardine del mondo occidentale.

Quando si venne a sapere che il suo esordio nella fiction sarebbe stato uno psicothriller di vaga ascendenza hitchockiana incentrato sulla controversa ma autentica figura di un presunto uxoricida scagionato dall’accusa di aver ucciso la moglie pur avendo mostrato evidenti turbe legate a un’infanzia funestata dal suicidio della madre e da un difficile rapporto con un padre dispotico, tutti si aspettavano un inevitabile bis. Che cioè Jarecki sapesse applicare alla ricostruzione drammatica di un celebre caso giudiziario quella stessa spietatezza di analisi dispiegata nel pluripremiato documentario.

Il fatto però che Love & Secrets approdasse nelle nostre sale con ben due anni di ritardo rispetto alla data di realizzazione era stato percepito da molti come un importante campanello d’allarme. E di certo non contribuiva a preparare pubblico e critica a una visione distesa e priva di pregiudizi l’intervento in zona Cesarini dei titolisti italiani: nell’ingenuo tentativo di attirare la gente in sala con un titolo più accattivante e immediatamente allusivo ai contenuti del film, eccolo quindi passare dall’originale All good Things (che aveva una serie di riferimenti incrociati assai pertinenti tanto alla coppia protagonista del film e a un’attività che i due impiantano all’inizio della loro relazione, quanto – più metaforicamente e coerentemente – al contrasto tra l’apparenza e la realtà di fatto) all’ottuso Love & Secrets che cerca di riassumere senza riuscirci i temi portanti del film stesso nella più che abusata coppia di sostantivi. Un insieme di indizi questo che ovviamente non deponeva a favore della pellicola di Jarecki e che, purtroppo, si sono rivelati qualcosa di più di semplici concomitanze o circostanze del tutto fortuite.

Al centro della vicenda c’è la complessa personalità di David Marks, chiuso e inquieto (presto però si capisce che ha una serie di buoni motivi per esserlo) rampollo di una famiglia di affaristi newyorkesi che hanno costruito un invidiabile impero immobiliare affittando a prezzi elevati immobili di modesto valore. Deciso a non seguire le orme paterne e a entrare nel business di famiglia, David fa il possibile per inventarsi una propria strada. Dopo aver conosciuto per caso una studentessa idealista inquilina di uno degli appartamenti di famiglia, se ne innamora ricambiato e la sposa non ostante la determinata ostilità del padre. Tutto sembrerebbe andare per il meglio. I due vanno a vivere in campagna dove aprono un bazar chiamato All Good things – ecco uno dei buoni motivi per cui sarebbe stato saggio mantenere il titolo originale – e danno al pubblico l’idea di essere avviati verso un percorso di possibile felicità futura. Ma dietro certi strani silenzi di David si cela uno dei segreti cui il titolo italiano allude. Lo spettatore lo scopre a scoppio ritardato, anche grazie al fatto che a raccontare la vicenda è la voce fuori campo di David stesso il quale, vent’anni dopo, sta ricostruendo l’intera vicenda della propria vita in un processo in cui si intuisce che è imputato con l’accusa di essere responsabile della scomparsa della moglie.

Col passare dei minuti si scopre appunto che il matrimonio era ben presto degenerato, ma anche quale sia la ragione per cui David sia tanto cupo e introverso e come mai abbia un’evidente propensione alla violenza di cui finisce per essere vittima la povera ragazza che ha commesso l’irreparabile errore di sposarlo senza indagare adeguatamente sul suo passato. Cosa che avrebbe fatto bene a fare, scoprendo così che dietro la facciata del perbenismo borghese del ragazzo acqua e sapone si celava un mostro mutilato nell’intimo da un’infanzia tragica e dalla presenza opprimente di un padre padrone.

Variazione un po’ pasticciata sul tema di Psycho (di cui ci sono tracce di vario genere sia sul piano del motivo che determina il disagio interiore del protagonista che su quello della sua tendenza al travestitismo), Love & Secrets si muove nel territorio un po’ accidentato della commistione dei generi, accettando una scommessa difficile per qualsiasi cineasta. E cioè cercare di ripercorrere un caso di cronaca senza limitarsi a concentrare l’attenzione sulla tragicità del protagonista scelto come eroe negativo della vicenda ripercorsa, ma infarcendola di continui rimandi a qualcosa che è sempre altro rispetto al tema centrale e che alla fine confonde lo spettatore disorientandolo con una girandola di stimoli narrativi che sembrano il balbettio incantato di un navigatore satellitare privo di adeguati aggiornamenti.

Avendo apprezzato Una famiglia americana, spiace dover ammettere che Love & Secrets delude e che dal suo regista era lecito e doveroso aspettarsi ben di più. Questo suo psicothriller d’esordio delude perché si rivela incapace di fare una precisa scelta di campo e concentrare il fuoco della sua analisi su uno solo dei troppi aspetti presi in esame (la rimozione inconscia di ciò con cui la ragione non può accettare di convivere e l’orrore che tale atteggiamento determina, la giustizia che fa il suo corso in ritardo, gli abusi domestici sulle donne da parte di mariti maneschi e disturbati ma che da fuori tutti credono consorti esemplari, la deviazione sessuale e via dicendo). Un ingorgo questo che denuncia l’ansia di voler dire tutto là dove sarebbe stato possibile dire molto anche limitandosi a uno solo dei troppi temi costretti a convivere sotto lo stesso tetto per un evidente eccesso di ambizione. Sopratutto perché quello della famiglia con le devastazioni interiori causate nei suoi membri dagli effetti  ritardati di shock adolescenziali e coercizioni coattive all’azione sarebbe forse stato da solo sufficiente a costruire un intero film.

E a ben poco serve che Jarecki abbia avuto a disposizione un cast di grande spessore, che però finisce con l’adeguarsi all’incertezza che domina la sceneggiatura e la sua resa registica, convertendo un patrimonio di qualità autentica in disorientamento spaesato. L’ambiguo e antipatico protagonista è affidato a Ryan Gosling che, prima della “cura” di Drive e de Le Idi di marzo, sembra bloccato in una paresi espressiva che non gli permette di dare adeguato spessore e mobilità interiore a un personaggio troppo tormentato e complesso per essere costretto in panni somatici troppo stretti. E lo stesso si potrebbe dire di Kristen Dunst che, nei panni della sfortunata moglie del disturbatissimo immobiliarista, si limita a incassare botte come un sacco d’allenamento senza mai riuscire ad andare oltre ai motivati isterismi che la sua condizione di vittima della violenza coniugale motivano in pieno. Per finire con Frank Langella, incapace di andare aldilà del compitino giudizioso nei panni del padre padrone custode dei segreti di famiglia ma anche responsabile di buona parte delle devianze del rampollo che ha cercato invano di educare a diventare uno squalo della finanza.

Trama

Accusato di aver ucciso e fatto sparire la moglie (ma poi assolto), un ricco immobiliarista newyorkese rievoca in una serie di lunghi falshback tutta la propria vita, scoprendo molti scheletri nell’armadio di famiglia e un segreto indicibile che l’ha condizionata sin dalla prima infanzia.


di Redazione
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