Lourdes

Lourdes, della regista austriaca Jessica Hausner, è un racconto crudele, metà fantasticheria e metà incubo, sul contrasto tra la fede in un Dio buono e onnipotente e la realtà quotidiana, effimera e contraddittoria. La storia narrata è semplice: Christine (Sylvie Testud), una ragazza da anni su una sedia a rotelle per una forma di sclerosi a placche, parte per un pellegrinaggio a Lourdes. Qui, dopo aver partecipato a preghiere, bagni sacri, messe collettive e rituali vari, la giovane è, inaspettatamente, raggiunta dal miracolo e sembra conquistare, insieme alla guarigione,l’attenzione del “cavaliere- principe” (Bruno Todeschini). Il film, però, non è tanto il racconto di una guarigione quanto una sorta di scatola cinese, in cui le scatole si aprono una dopo l’altra, senza mai arrivare al centro. La regista si pone in una prospettiva più filosofica che religiosa: la presunta miracolata non è particolarmente credente e anche l’evento prodigioso è come se non fosse motivato da niente o da nessuno. Inoltre, Christine comprende immediatamente che la ritrovata felicità potrebbe finire in qualsiasi momento: in questo senso, Lourdes è il palcoscenico su cui si svolge una più generale commedia umana. Ogni persona, alla ricerca della pienezza e del senso, si scontra, inevitabilmente, con  l’incompiutezza e l’arbitrio. Questo paradosso e quest’ambiguità sono resi assai bene, nel film: l’autrice, ispirandosi ad Ordet (1955) di Dreyer, in cui i fari di un’auto sono visti dal folle come l’arrivo della morte e dalla famiglia come l’arrivo del medico (hanno ragione entrambi perchè il medico arriva ma la persona malata muore), insinua sapientemente il dubbio nel crescendo di salute, successo e “Felicità” (come sottolinea la canzone omonima della colonna sonora) che sembra investire la sua eroina.

Se Lourdes, in quanto universo chiuso, isolato, permette di sviluppare una narrazione più parabolica, le diverse divise ( da infermiera, da cameriera, da cavaliere dell’Ordine di Malta) indossate dai personaggi trasmettono con forza l’idea di un sistema, sociale e religioso, che influenza e condiziona gli individui. Ognuno recita un ruolo e a quel ruolo sembra condannato: nel finale, quando Christine, pare tornare a star male, vediamo immediatamente avvicinarsi a lei, con tanto di sedia a rotelle, la signora Hartl, una sessantenne che si occupava di lei, prima del “miracolo”. Viene in mente, per analogia, la terribile sequenza del film “Martha” (1973) di Fassbinder, in cui il marito sadico si riappropria della moglie inerme, dopo l’incidente che l’ha lasciata paralizzata.

Con minimalismo narrativo e grande rigore, Jessica Hausner realizza un’opera fredda e densa su temi complessi come il rapporto tra il ruolo che svolgiamo nella società e la nostra identità personale o il contrasto tra casualità e necessità. L’incrinatura nella logica, la ragione del miracolo sono, qui, il punto di partenza per una riflessione su questioni esistenziali riguardanti ciascuno di noi: il risultato finale è un film originale e controcorrente, per un pubblico che abbia voglia di raccogliere, dietro l’essenzialità dei dialoghi, le sollecitazioni e le provocazioni di una regista sensibile e intelligente.


di Mariella Cruciani
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