Louisiana
E’ un film di corpi segnati, gesti stanchi, sorrisi sdentati e rabbiose solitudini Louisiana (The Other Side) di Roberto Minervini, appena presentato al Festival di Cannes nella sezione “Un certain regard”. Minervini, italiano che da tempo lavora negli Stati Uniti insieme alla moglie Denise Ping Lee, continua la ricerca sull’America profonda cominciata con un’eccellente trilogia di documentari sugli agricoltori del Texas: l’ultimo capitolo, Stop the Pounding Heart – Trilogia del Texas Atto III (2013), ha ottenuto moltissimi riconoscimenti, fra cui il David di Donatello per il miglior documentario nel 2014. Il regista addirittura sceglie di filmare persone imparentate con i protagonisti di quelle storie di ambientazione rurale, ma si sposta in un altro contesto, in Louisiana, uno degli stati più poveri dell’America, dove il tasso di disoccupazione raggiunge il sessanta per cento e moltissima gente cerca di sfuggire alla disperazione consumando alcool e anfetamine.
Minervini si concentra sulla figura di Mark, spacciatore e tossicodipendente, che a modo suo cerca nonostante tutto di essere un buon compagno per la sua Lisa, un figlio amorevole per la madre malata, uno zio presente per i nipoti che rifornisce, a seconda dell’età, di bambole o pasticche. Il regista, scegliendo la via del documentario drammatizzato, segue passo passo la vita quotidiana di Mark, standogli addosso fisicamente con la macchina da presa, riprendendolo mentre si prepara una dose, fa l’amore con Lisa, dà “lezioni” sull’economia criminale e il diritto di voto al nipote (un adolescente che sembra già vecchio, precocemente schiantato dalla disillusione e dagli stupefacenti). Mark è alla deriva ma spera ancora di salvarsi, magari usando il carcere (su di lui incombe una condanna a tre mesi) per ripulirsi dalla droga. Mentre Jim, veterano di guerra senza un dollaro, beve sistematicamente e si augura che venga eletta alla presidenza Hillary Clinton, che sicuramente si occuperà di lui e di tutti gli altri reietti della società. Questa parte del film è sicuramente la più riuscita, avvolgente, impudica e allo stesso tempo delicata nei confronti dei personaggi: lo spettatore finisce per essere coinvolto e partecipe delle vicende di Mark, Lisa e Jim, della loro quotidianità assurda e illegale ma in un certo senso “normale”, perché nutrita come quella di tutti, amore, aspettative, legami, ricordi, rivendicazioni, caffè e risate.
Quando Minervini si sposta in un’altra zona della Louisiana e cambia l’oggetto delle sue ricerche, concentrandosi su un gruppo paramilitare i cui componenti si addestrano per proteggere (non si sa da cosa) le proprie famiglie, il film finisce per smarrire il suo centro e perdere la sua coesione. Un po’ perché lo sguardo del regista cambia e si fa (inevitabilmente) più guardingo e meno empatico, un po’ perché l’accostamento fra questi due gruppi di persone appare in qualche modo forzato. E’ vero, sia la comunità di bianchi poveri e tossici della Louisiana del Nord sia i fanatici delle armi che sparano alla sagoma di Barack Obama sono l’altra faccia (“The other side”, appunto) dell’America, ma i primi finiscono per risultare più autentici e originali: con le loro esistenze ai margini ma ancora cariche di vitalità ci raccontano molto di quel grande paese che li ha dimenticati, ci fanno entrare nelle viscere, anzi nelle vene (in senso letterale, ahimé) dell’esclusione sociale più profonda.
TRAMA
Un film documentario, girato in Louisiana, ci porta alla scoperta di un’umanità nascosta, che teme di perdere ogni diritto e si sente dimenticata dalle istituzioni degli Stati Uniti: un’intera famiglia segnata dalla tossicodipendenza, veterani in disarmo, ex combattenti delle forze speciali in guerra con il mondo, future mamme allo sbando, anziani che non hanno perso la voglia di vivere. Tra queste persone, in uno stato affossato dalla disoccupazione e funestato dalle catastrofi naturali, si celano gli abissi dell’America di oggi.
di Anna Parodi