Lost in translation – L’amore tradotto

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lostintranslationSe cominciamo con il tradurre Lost in translation in L’amore tradotto dobbiamo innanzitutto comprendere il livello comunicativo di questo espediente creativo gravido di invenzione tout-court e, al meglio, di inopinata analisi illustrativo-riassuntiva dell’intero film. Chi ha ideato il titolo italiano dell’opera seconda di Sofia Coppola ha ipotizzato qualche risvolto sentimentale fra i protagonisti ed ha pensato bene che due americani in Giappone potrebbero avere seri problemi di comprensione della lingua asiatica. Riuscendo così nell’illuminante risultato di abbandonare al suo destino la traduzione letterale del titolo che avrebbe potuto condensare il senso minimo di una commedia sentimentale sottile e garbata, sobria nelle messa in scena, cadenzata nel ritmo e finemente cesellata in quelli che paiono tempi morti ma che si rivelano, narrativamente, costruttivi tasselli significanti.

Dicevamo: perduti o persi in una traduzione, o meglio, nella trasformazione/traslazione di un connubio anima e corpo lontano dai propri riti, dalle proprie ‘naturali’ routine esistenziali. L’equivoco alla base dell’intera pellicola starebbe nella impossibilità dei due protagonisti (Bill Murray/Bob Harris e Scarlet Johansson/Charlotte) di adattare la propria quotidianità a nuovi codici culturali (dalla lingua all’alimentazione, dall’educazione civica alle manifestazioni di giubilo). Parlo di equivoco dato in pasto come falsa pista interpretativa, perché è proprio dallo scontro con una nuova dimensione geografica e ambientale, che nasce una nuova perlustrazione dei propri sentimenti, una differente visione del mondo circostante. In definitiva, la sottrazione di elementi che paiono vitali crea anticorpi capaci di ricreare un ancor più vivo sistema sensoriale. Bob e Charlotte sono, quindi, figure che non necessitano di un impianto filosofico a fare da sottotesto, ma che fluttuano e si abbandonano ad un poetico, tenero, romantico afflato.
>br> si prende poi tutto il tempo necessario per costruire questo bizzarro rapporto a due: lo spaesamento iniziale, il timido incontro, la reciproca e disincantata conoscenza fra i due protagonisti sembrano cadere nel gorgo della sequenza a vuoto, del montaggio cripticamente ellittico ma, tirate le fila dell’intera operazione, diventano elementi essenziali e peculiari per assaporare una pellicola, scritta e diretta da una trentaduenne, così poco imbellettata di gratuità da copertina, così intensamente personale, così straordinariamente commovente in un semplice campo e controcampo che racchiude un abbraccio paterno (?), fraterno (?), fra amanti clandestini (?). Proprio nel momento in cui ci si è rimpossessati di un luogo straniero, lontano, diverso che ora ci apparirà irrimediabilmente di casa.


di Davide Turrini
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