Loro 1

Perché parlare ancora di Silvio Berlusconi e dedicargli non uno ma due film (in realtà un unico lungometraggio discutibilmente diviso in due parti uscite nelle sale a distanza di venti giorni l’una dall’altra), quando i suoi molti vizi privati e le sue poche pubbliche virtù sono più di un libro aperto con cui la cronaca pruriginosa e il gossip becero hanno alimentato vent’anni di bulimia mediatica viaggiando in parallelo a quanto accaduto nelle aule dei tribunali?

Ma soprattutto: perché a scrivere e dirigere questo dittico è un autore apparentemente tanto lontano dalla cronaca dell’hic et nunc più vieto quale il premio Oscar Paolo Sorrentino (basti pensare in proposito alle sofisticate atmosfere del suo ultimo lavoro per il cinema, il rarefatto The Youth — La giovinezza, per non parlare della scorribanda anarcoide in TV sul papa controcorrente di The young Pope)? Che c’entra l’autore de La grande bellezza con l’uomo che è riuscito nell’impresa quasi impossibile di rendere brutto e deforme un intero paese sulla scia del sogno del successo alla portata di tutti?

Domande queste cui non è facile rispondere nemmeno dopo aver visto il primo capitolo di questo dittico che mette a disagio chi ne deve dare un giudizio critico parlandone come prodotto cinematografico e non come l’ennesimo tassello di un caleidoscopico puzzle che dalla famosa «discesa in politica» del lontano 1994 ai giorni nostri il giornalismo impegnato, la letteratura alta e anche il cinema d’autore (oltre ovviamente alla stampa scandalistica di vario de-grado) non hanno potuto evitare di comporre in trent’anni di vivisezione analitica di un’icona dell’italianità più deteriore e becera.

L’intento di Sorrentino non era infatti quello di ripercorrere — pur con la peculiarità del suo occhio — per l’ennesima volta alcuni degli ormai arcinoti momenti della biografia del Berlusconi pubblico o di rituffarsi nel magma maleolente della sua imbarazzante esistenza privata (divenuta di dominio comune grazie alle note vicende del Rubygate, dei tre processi cui tale scandalo ha dato la stura e dell’enorme iceberg di impudiche bassezze che quella sordida vicenda ha contribuito a portare alla luce).

No. A Sorrentino sta evidentemente a cuore un aspetto molto diverso dell’intera galassia Berlusconi. Come si può ben desumere dal titolo, ciò che sembra intrigarlo di più (almeno a giudicare dalla prima ora di questo capitolo iniziale del dittico, divenuto tale per mere e fastidiose ragioni di opportunismo distributivo) è una combinazione di componenti che in tutte le altre opere filmiche e narrative dedicate a questa iconica figura dei nostri tempi non era mai apparsa a livello di cocktail organico ma sempre come entità dissociate e facce poco compatibili della stessa medaglia multiforme.

Da una parte ci sono infatti «loro», ovvero i membri di quel sottobosco malato che degli aspetti più deteriori del berlusconismo hanno fatto un credo di vita. E cioè papponi di lusso, legioni di olgettine in fiore pronte a barattare la propria giovinezza per una comparsata a Canale 5, politici arruffoni saliti sul carro di Forza Italia dopo aver tradito tutto e tutti, arrivisti col pelo sullo stomaco, guru dell’ultima ora, figure e figuri del piccolo schermo e chi più ne ha ne metta.

Dall’altra c’è invece «Lui», l’inavvicinabile — anche per molti elementi di quella corte dei miracoli sospesa tra adulazione mimetica e clientelismo all’ablativo —, il caimano gigione che ha convertito in elettori adoranti milioni di telespettatori delle sue Tv spazzatura. Ma che nel 2006 (l’annus horribilis al centro della pellicola) è alle prese col disagio di essere all’opposizione di un governo di «comunisti» (leggasi Prodi II) e coi goffi tentativi di riconquistare la moglie Veronica, sempre più lontana da lui dopo un ventennio di tradimenti con adolescenti prezzolate e ormai solo più alla caccia di una propria dignità perduta.

E non è un caso che questo Loro 1 sia infatti a sua volta diviso in due parti nettamente distinte. Nella prima giganteggia la figura di Sergio Morra/Riccardo Scamarcio (evidente alter ego di Giampi Tarantini), un talent scout senza scrupoli ma con tanta ambizione che impiega 65 minuti di pellicola per affrancarsi dalla provincia pugliese e tentare la scalata al mondo di «quelli che contano» ingolosendo i voraci appetiti sessuali di «Lui» con una legione di escort di lusso esposte come carne da macello in una lussuosa villa presa in affitto dirimpetto alla celebre Villa Certosa in Costa Smeralda.

Solo quando Morra approda in Sardegna con il suo gregge di ventenni scosciate e amorali, il pubblico ha finalmente modo di veder compatire sulla scena «Lui». Che, sorpresa ma solo per chi si fosse perso i pochi e furbeschi fotogrammi messi in circolo dalla produzione un mese orsono, ha la faccia quasi irriconoscibile di Toni Servillo, che di Sorrentino è un fedele compagno di viaggio oltre che attore feticcio sin dai tempi degli esordi de L’uomo in più ma che qui appare in grande disagio a scimmiottare i gesti e le movenze di Berlusconi, arrancando anche nel poco riuscito tentativo di imitarne l’inconfondibile parlata da minga arrogante.

Le sorprese non finiscono però qui. «Lui» è alle prese con due imprese impossibili che prendono in contropiede anche il più appassionato dei berluscones. Niente olgettine all’orizzonte (per lo meno fino a quando non gli viene in mente di andare a Napoli a festeggiare i diciott’anni di una ragazzina che sarà il primo degli scandali al sole di una lunga serie), niente fervori aziendali da uomo del fare, né torbide smanie sessuali da bunga bunga. Ma solo due crucci che il mondo di fuori non può nemmeno immaginare. E cioè l’angoscia di essere all’opposizione politica unita agli impacciati tentativi di riconquistare un’ormai perdura Veronica Lario (che in una feroce Elena Sofia Ricci ha uno dei momenti più riusciti dell’intera operazione).

Che Sorrentino voglia spingere molto su questo tasto dell’intimità dell’uomo Berlusconi più che su miriadi di altri aspetti collaterali di natura spicciamente cronachistica fin troppo noti a tutti lo conferma l’epigrafe che apre il film e che è parte dell’introduzione a Pinocchio: un libro parallelo di Giorgio Manganelli. E cioè «Tutto documentato, tutto arbitrario». Niente cronaca, niente Storia (se non pochissima), niente atti giudiziari. Solo le fibrillazioni interiori di un uomo che non si pensava avesse un’anima e che qui invece viene mostrato alle prese con la tentata riconquista di una moglie partita per la tangente e di quel solo potere che nemmeno i suoi miliardi gli possono garantire.

Ma sarà poi vero che le cose stessero davvero così? Sorrentino lancia il sasso ma poi tira indietro il braccio e si limita a mostrare col suo tipico accumulo di manierismi barocchi e sequenze a volte fin troppo dilatate nell’autocompiacimento senza mai esprimere un vero giudizio sul Pinocchio/Berlusconi che mette in scena. La verità — dice il suo «Lui» parlando a un nipotino — è solo la convinzione e il tono con cui si fa un’affermazione.

Ed è così che il doppio tentativo di riconquista (dell’amore della consorte che «legge libri difficili» e di una vittoria elettorale destinata ad arrivare solo di lì a due anni) si intreccia con l’agitarsi fatuo di altri burattini che, accanto a nomi autentici di quell’era — si parla del Milan, di Putin, dello chansonnier guaglione Apicella, di Noemi Letizia, di Mike Bongiorno —, vedono sfilare una coorte di alter ego possibili che il pubblico è chiamato a cercare di identificare indovinando chi ci sia dietro il ministro e poeta sessuomane di Fabrizio Bentivoglio, dell’ape regina di Kasia Smutniak, del faccendiere senza scrupoli di Ricky Memphis, della politica spregiudicata di Anna Bonaiuto per fare solo qualche esempio.

Il grand guignol dell’epos berlusconiano viene ridotto al ritratto dimidiato di un uomo che implora puerile l’amore

Il grand guignol dell’epos berlusconiano viene ridotto al ritratto dimidiato di un uomo che implora puerile l’amore che non può più comprare e mette sullo stesso piano la rabbia di non essere più a capo di un governo con il rifiuto di un calciatore di colore (Weah?) di vestire il rossonero a favore di un’altra maglia a strisce verticali. Il tutto col gusto del grottesco tipico del cinema di un autore che questa cifra l’ha sempre eletta a marchio di fabbrica della propria poetica. Un grottesco tutto colori pastello che qui è sempre messa in scena di un mondo fasullo e mai sberleffo di dileggio per l’inconsistenza stessa di quell’universo di plastica creato da un mago della manipolazione di massa.

Dove Sorrentino voglia arrivare lo si capirà soltanto con il secondo capitolo di questo dittico. Per ora resta l’amaro in bocca di fronte a un film decapitato e depotenziato che spreca preziosi minuti di pellicola per mostrare (come nella lunga sequenza di apertura) la morte istantanea di una capra finita per sbaglio in una delle infinite stanze di Villa Certosa con aria condizionata a livelli antartici, là dove forse, con meno concessioni che a un Oscar non si possono negare, con un po’ più di umile sintesi avrebbe potuto essere il ritratto incisivo di un paese e della sua deriva da consumare tutto d’un fiato.

 

Trama

Sergio Morra, talent scout di Taranto con tanta voglia di arrivare in fretta a sedersi al tavolo di «quelli che contano», mette insieme una legione di giovani avvenenti e pronte a tutto con le quali spera di poter avvicinare «Lui», ovvero l’inarrivabile Silvio. Che in quel 2006 ha però ben altri pensieri che lo tormentano, essendo alle prese col disagio di essere all’opposizione del governo Prodi ma anche con un’ormai irreversibile crisi di coppia con la moglie Veronica Lario.

di Guido Reverdito
Condividi