Locke

Con Locke di Steven Knight (sceneggiatore di grande prestigio con alle spalle script quale quello del cronenberghiano La promessa dell’assassino e poi passato alla regia lo scorso anno con il forse sottovalutato Redemption – Identità nascoste) il cinema dei giorni nostri realizza con successo l’ennesimo matrimonio impossibile. E cioè coniugare una scommessa azzardata sul piano narrativo  — una storia interamente ambientata all’interno dell’abitacolo di un’auto con un solo attore in scena per tutta la durata del film — con le tradizionali regole aristoteliche delle unità di luogo, tempo e azione che hanno governato per quasi tre millenni ogni forma di drammaturgia.

Chi non avesse visto il film potrebbe giustamente pensare che 85 minuti di pellicola nella quale si vede sempre e soltanto lo stesso volto di un attore inquadrato da diverse angolature da fuori del suv su cui sta viaggiando impegnato a districarsi in una serie di telefonate la cui drammaticità aumenta col passare dei minuti sia una forma di claustrofobia insostenibile capace solo di causare noia per la ripetitività di ciò che viene mostrato sullo schermo. E invece le cose non stanno così. Perché Locke ha la capacità di riassumere il dramma della vita di un uomo nel breve arco di tempo (esattamente la stessa durata del film) del viaggio in macchina da Londra da Birmingham con un tale crescendo di tensione emotiva da far passare in secondo piano la totale assenza di azione e l’asfissia narrativa che caratterizzano quanto viene narrato.

L’uomo nel suv è Ivan Locke. Capomastro di una grossa multinazionale edile che sta per realizzare sotto la sua esperta supervisione le fondamenta di un imponente edificio nei sobborghi di Birmingham, la sera che precede quel fondamentale appuntamento professionale decide di abbandonare il cantiere e si mette in macchina senza che la sceneggiatura offra alcuna motivazione a un gesto tanto assurdo e inspiegabile. Sarà solo dopo qualche chilometro che lo spettatore inizierà a ricevere brandelli di informazioni capaci di gettare sufficiente luce non solo sull’inopinata decisione di lasciare sul più bello l’enorme cantiere ma anche sul retroterra umano, sociale e soprattutto morale del solo personaggio intorno al quale l’intero lungometraggio si avvita in una spirale perversa destinata a esiti imprevedibili.

Collegato al resto del suo mondo tramite il vivavoce installato all’interno del lussuoso suv su cui viaggia, Locke inizia una serie di telefonate rivelatrici che offrono al pubblico le chiavi necessarie per interpretare il suo comportamento ma anche per vivere con lui il dramma scespiriano destinato a consumarsi in meno di un’ora e mezza all’interno dell’abitacolo. Pur essendo felicemente sposato e con due figli che mostrano di essergli attaccatissimi (l’intera famiglia lo sta aspettando a casa per vedere una partita della squadra del cuore e nessuno dei suoi membri sulle prime riesce a capire il perché della sua assenza), sette mesi prima Locke ha avuto una fugace relazione extraconiugale durata il breve spazio di una notte. Roba da poco, se non fosse che la donna è rimasta incinta ed essendo una fragile ultraquarantenne piegata dalla vita e senza alcuna prospettiva futura oltre che a legami affettivi di qualsivoglia natura, ha deciso di tenere il bambino.

Il motivo per cui Locke ha abbandonato il cantiere è proprio quello: determinato a non abbandonare la donna nel momento del parto, sta guidando verso Londra per starle vicino nelle fasi concitate del parto (destinato a essere particolarmente tribolate non solo per la natura intimamente fragile della donna ma anche per complicazioni che intervengono durante il travaglio). Ma siccome dimostra subito di essere un uomo tutto d’un pezzo, Locke sceglie quella stessa notte per rivelare alla moglie il motivo della sua assenza a casa, causando con la rivelazione della relazione extraconiugale e dell’inattesa paternità che lo attende un terremoto emotivo in lei e nei figli.

Come se quello non bastasse, dopo aver informato i collaboratori più stretti circa l’assurda decisione di non poter presiedere il mattino successivo alla maxi colata di calcestruzzo progettata da settimana nei minimi dettagli, Locke scopre anche di essere stato licenziato in tronco dal management americano della multinazionale per cui lavora(va). Ciò non ostante, fedele a un’etica ormai rara nel mondo in cui viviamo, si imbarca in una serie di telefonate ugualmente concitatissime con le quali cerca di far sì che la mattina successiva tutto vada al meglio e che non vi siamo imprevisti di alcun tipo.

Ma non è ancora sufficiente. Non pago di dover risolvere tutto questo insieme di beghe personali e professionali, Locke trova anche il tempo per aprire un dialogo immaginario con la figura fantasmatica del padre la cui presenza grava minacciosa all’interno dell’auto. Locke lo evoca perché sente materializzarsi la minaccia di una sentenza a metà tra la genetica e la maledizione da tragedia greca: siccome il padre era stato un donnaiolo impenitente che lo aveva abbandonato (lui che sta facendo esattamente il contrario per andare a riconoscere un figlio nato da una relazione extraconiugale), Locke lo affronta nella propria mente cercando di negare ogni forma di possibile connessione ereditaria con lui.

L’ora e mezza di viaggio verso Londra diventa così un calvario verbale che Locke affronta rimbalzando senza requie dal concitato pilotaggio a distanza del suo più stretto collaboratore al sostegno morale che cerca di dare a Bethan — la donna che sta per avere un bambino concepito con lui — confortandola quando i medici la stanno per addormentare per poterle praticare un cesareo d’emergenza. Il tutto mentre deve prima rivelare alla moglie l’accaduto e quindi cercare di contenerne la furia esplosiva che erompe con inaudita violenza dopo la rivelazione.

L’accavallarsi di telefonate, distinte in maniera molto marcata dal tono che Locke (interpretato da uno straordinario Tom Hardy la cui maratona d’attore meriterebbe però di essere vista in lingua originale) assume a seconda dell’interlocutore, sostituisce quello che nel cinema tradizionale sarebbe stata azione allo stato puro, riuscendo nell’impresa di convertire il massimo di staticità pensabile in un trionfo di dinamicità drammatica con il ricorso al minimo di strumenti visuali e drammaturgici immaginabili. Ovvero il grado zero assoluto della narrazione con il rispetto quasi maniacale delle regole dell’unità di azione, tempo e spazio che ne sono state il metronomo per millenni.

La corsa verso il proprio destino di un uomo deciso a non scendere a patti con la coscienza accettando il peso della colpa e le conseguenze esiziali che ne derivano (a fine viaggio il bilancio sarà di una paternità subita responsabile di una separazione dolorosa e della perdita del lavoro) ha una potenza di rappresentazione tale da svincolarsi dal ruolo di semplice caso individuale per assurgere a storia esemplare e insieme a rappresentazione simbolica del cupio dissolvi di un’intera civiltà. E cioè quella occidentale, avviata ad avvitarsi su se stessa schiacciata dal peso di anni di errori ora finalmente venuti al pettine e non più a lungo celabili sotto il tappeto della cattiva coscienza collettiva di un intero continente.

Il film di Steven Knight — che fino a lavorazione inoltrata non aveva una sceneggiatura vera e propria ma solo un canovaccio di poche pagine — è per questo uno dei pochi prodotti usciti in questi ultimi anni degno di essere considerato rivoluzionario in un panorama produttivo che zoppica rigurgitando storie già raccontate da troppi altri o al massimo cercando di proporre improbabili variazioni su temi lisi dall’abuso. Locke (presentato a Venezia inspiegabilmente fuori concorso) racconta una vicenda così semplice da sembrare disarmante. Ciò non ostante la scelta di raccontarla adottando la claustrofobia di un abitacolo e la comunicazione modernissima via telefono cellulare converte il film in qualcosa che va ben aldilà della semplice esperienza cinematografica, trasformando la struttura stessa del film in qualcosa di inedito e mai visto prima.

Trama

Locke ha una vita invidiabile: un lavoro di prestigio come capomastro in una grande ditta di costruzioni, una bella famiglia con moglie affezionata e figli devoti. Ma alla vigilia di quello che forse sarà il giorno più importante di tutta la sua carriera nel campo edile, tutto crolla nel momento in cui decide di guidare da Birmingham a Londra per assistere al travagliato parto di una donna con la quale mesi prima ha trascorso una notte finendo col metterla incinta. Deciso ad affrontare in maniera matura e responsabile le conseguenze di quello sfortunato incontro, Locke accetta di andare incontro al proprio destino e allo sfascio esistenziale che ne seguirà.


di Redazione
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